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Channel: Gretah Camposano – Mangiatori di Cervello
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Fiori rosa, fiori di gender: la guerriglia identitaria

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La cosa più divertente dello stare al mondo? Le interazioni fra gruppi.

La società è costituita da gruppi umani che ne definiscono le forme. Ogni membro della società può far parte di diversi gruppi e c’è chi ha la fortuna di appartenere a quelli più blasonati, poiché possiede caratteristiche ritenute stimabili nella cultura di riferimento. I gruppi dominanti dettano le regole del gioco e se “ti mettono fuori dal gruppo”, mi spiace per te, ma fai parte di una fazione sfigata. Anche se tu ti senti bene ad essere un emarginato, il fatto è che l’hanno comunque deciso loro e non tu. “Loro”, quelli del gruppo dominante che ti hanno tagliato fuori, vincono sempre. Cioè, potresti anche sentirti a tuo agio nel tuo oceano di emarginazioni se sei donna, straniero, musulmano, omosessuale e via dicendo, ma fai comunque parte di quelli che non bevono il cocktail nel locale giusto con la gente giusta.

intoleranceL’uomo ha bisogno di autodefinirsi: un Io che fa parte di un Noi, contro gli Altri. Ci si batte per l’affermazione di una individualità ma in una collettività, perché la guerra si fa con fanti e bandiere. Puoi quindi fondare il tuo gruppo, sguazzarci dentro, batterti per il tuo diritto di esistere e di essere riconosciuto e se hai la fortuna di diventare famoso ed avere un seguito, ad un certo punto, tutti si sentiranno sfigati come te, ed essere sfigato diventerà la nuova moda. Ne sono un esempio i recenti movimenti di liberazione omosessuale. Poi, ti dimentichi del perché e del per cosa stavi lottando, e ti ritrovi a partecipare a party esclusivi con quelli che ti avevano schifato e sbattuto fuori dal loro giro. Bevi il tuo cocktail. Hai il tuo partito. Indìci gay pride.

Ci sono anche quelli al confine: i bisessuali. Dove li collochi? Essere bisessuale significa, se proprio vogliamo puntualizzare, non essere né gay né etero, ma essere attratto da entrambi i sessi. Un individuo bisessuale potrà pensare “Bene! Se quelle persone si battono per l’amore senza discriminazioni allora io potrò unirmi ai gay!” E invece no. Praticamente, chi è mediamente sfigato per poter stare nel “gruppo dei normali” ma non abbastanza da stare nel gruppo degli sfigati veri e propri: o finge di essere qualcun altro, o si fonda un nuovo club a parte, e le discriminazioni continuano all’infinito.

Ma facciamo un passo indietro. Chi si sente diverso non lotta (o dice di farlo) per ottenere un mondo migliore, dove non esistono etichette e tutti hanno i medesimi diritti? E allora perché creare locali e club appositi? Perché si vogliono delle leggi speciali, per una categoria “a parte” (appartenenti al mondo LGBT) se sono persone, e in quanto persone si dovrebbe poter accedere ai diritti dei “normali”? Perché si parla di diversità, ma discriminiamo chi non è diverso come noi?

gay pride parade

Gay Pride Parade, Bologna, 2015 Credits: Baku Loddo

I “nuovi gruppi” e movimenti di liberazione sessuale covano in seno non poche contraddizioni che mettono in crisi la filosofia giuridica e il diritto stesso, non preparato ad accogliere modifiche concrete. I rapidi cambiamenti sociali, avvenuti nella seconda metà del Novecento, mettono in crisi la forma della società, la quale non riesce più a controllare le propaggini di un individualismo che si cela dietro ad una frammentazione spesso esasperata.

Queste dinamiche di lotta fra gruppi umani non si possono e non si devono eliminare ma, date le ultime polemiche nate dalle dichiarazioni di Dolce e Gabbana sulle adozioni gay, mi verrebbe da ricordare a tutti un concetto semplice e conciso, che forse ci siamo dimenticati: “Dio avrà sbagliato tante cose, ma ha distribuito equamente gli stronzi tra i negri, i froci e gli handicappati” (cit. di un mio amico).

Nota: l’articolo è stato realizzato con la collaborazione di Ngoc Lan Tran


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C’era una volta, no forse possono essere due

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Sono tra quelli che ormai guardano al Natale in maniera disillusa. Anzi, mi sono talmente abituata a lavorare che queste feste obbligate mi sanno di perdita di tempo, e rimango lì stressata a tremare perchè non sono capace di non fare. Cerco comunque di passare le giornate in maniera tranquilla, con il mio compagno e il cane. È in questi giorni che riusciamo a passare del tempo insieme per almeno due ore consecutive, con calma, senza per questo dover saltare i pasti o correre di qua e di là perchè sono in perenne ritardo.

Si ritorna un pò a un’antica aria domestica, che ho perso ormai, da quando vivo da sola: profumo di cibo la mattina, appena svegli il gusto del latte che puoi bere in santa pace, magari ascoltando anche della buona musica. Non ti rendi conto di queste cose finchè non le perdi e ti ritrovi la domenica mattina con una pila infinita di piatti da lavare, un odore di marcio e putrido che viene dal sacco dell’immondizia che ti chiede solo di morire, e devi anche stare attento a non sederti sulle mutande sporche che qualche coinquilino ha gentilmente disseminato per casa.

TRADITIONAL CHRISTMAS FOODIl pranzo di Natale c’è, ma non è certo quello che preparava tua nonna, che si doveva svegliare alle quattro di mattina, per preparare ogni cosa, minuziosamente, senza dimenticare alcun dettaglio. In casa mia, come nelle case della maggior parte degli italiani, sono entrati i cibi precotti, conservati in scatola, surgelati, e in meno di due ore la magia è avvenuta: qualche additivo a parte, qualche conservante in più, e il banchetto è servito, così dopo abbiamo tempo per fare altro, non si sa esattamente cosa, ma il tempo avanza.

Ho addirittura tempo di vedere un documentario – Sound City di Dave Grohl – su uno studio di registrazione di Los Angeles, e la cosa che mi attira di più è il modo in cui negli anni ’70 si montavano le registrazioni: il fonico tirava fuori il nastro, tagliava, e poi rincollava il nastro. Quando tagliavi non potevi più tornare indietro, ti dovevi prendere la responsabilità e ciò che era fatto, era fatto. Poi il video andava avanti mostrandoti come la cosa avviene oggi: con un programma come Pro Tools il lavoro è qualitativamente migliore, più pulito, più veloce, e se sbagli torni indietro.

Senza titoloUna grande conquista, direi, ma ricordandomi mia nonna, che si svegliava alle quattro di mattina per il pranzo di Natale, mi sono ricordata anche della sua frase “Era meglio quando si stava peggio”. Per me è stato strano: penso che demonizzare una generazione e fare paragoni con la propria sia inutile e fuorviante; lo sviluppo ci deve essere e bisogna fare i conti col reale, ma forse ogni tanto non fa male fermarsi in questo turbinio di avvenimenti e cercare il bandolo della matassa. Guardando quell’uomo che tagliava il nastro mi sono resa conto del come sia mutato nel tempo il senso di responsabilità perchè, diversamente da oggi, la maggior parte dei  processi nella vita erano irreversibili. Non si poteva fare tutto all’infinito e quindi, utilizzando una metafora che rispecchia i valori dei “miei” tempi incidere un disco, fare un film oppure preparare il pranzo di Natale era un po’ come perdere la verginità. Se non stavi attento il disastro era compiuto e non c’era arrosto precotto che potesse salvarti.

Ciò significava almeno tre cose: un tempo riflettevi bene prima di compiere un qualunque gesto; facevi qualcosa solo se pensavi che ne valesse la pena; l’apprendistato alla vita, in qualunque settore di essa, aveva una grossa rilevanza e non vi erano corsi lampo per qualunque cosa. La visione di un qualsiasi tipo di processo non doveva essere frammentaria, ma curavi il tuo prodotto dall’inizio alla fine.

Non posso certo dimenticarmi, ovviamente, che tutto ciò ha comportato grandi passi avanti e che l’accelerazione delle cose nel mondo ha avuto anche fondamentali risvolti positivi, senza i quali oggi ci sarebbero ancora malattie incurabili, disservizi incredibili e la cultura sarebbe ancora riservata a pochi e manipolata ancor di più.

Però, forse, la perfezione la raggiungeremmo se utilizzassimo quella mentalità e quegli strumenti di cui disponiamo oggi: avremmo un mercato cinematografico, musicale, editoriale e artistico in generale di ben altro livello se i professionisti del mestiere ci pensassero bene prima di creare mostri senza senso, ciarpame inguardabile e inascoltabile, tutta roba identica, che non lascia spazio a una riflessione giusto perchè è facile produrla. Forse, se certi autori avessero dedicato maggior tempo alle loro creazioni spinti dalla passione e non dalla fretta di essere scavalcati dal concorrente, avrebbero davvero edificato la loro fortuna, e non avrebbero compiuto un lavoro compreso e apprezzato da pochi.

Bisognerebbe rincominciare a dar peso a tutte le prime volte perchè, anche se materialmente possiamo tornare indietro, quasi sempre sono le esperienze uniche e irripetibili a farci crescere e allo stato attuale si dovrebbe, perlomeno, tentare di mettere ordine a questo oblio formativo ed esperienziale che abbiamo costruito.

Fortunatamente, il “nastro del nostro cervello” non lo possiamo riavvolgere, ma dato il gran caos e i danni che stiamo producendo a causa della macchina impazzita della produzione scellerata cui stiamo assistendo, non mi stupirei se arrivassimo a tanto. Ma al sol pensiero inorridisco.


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Curvy ma non troppo

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Devo fare questa premessa perchè prevedo un’ondata di perbenisti benpensanti che mi massacreranno e mi denunceranno alla Corte Europea dei diritti dell’uomo.

anoressiaHo 25 anni, ho passato l’adolescenza a sognare di avere un altro corpo, e sono una di quelle che si è fatta venire la lordosi a furia di stare curva per nascondere il seno, e dopo anni di guerra contro il corpo, ho fatto pace col cervello e ho deciso diverse cose: la prima è che sostanzialmente non mi interessava in maniera ossessiva il corpo della  gente, ma più il contenuto  (anche l’occhio vuole comunque la sua parte) e che quindi dovevo smetterla di posare per fotografi che si saranno sicuramente spippati fino alla morte sulle mie foto. E soprattutto ho imparato che la taglia è solo un numero, e spesso esistono donne bellissime che certo non rispettano i canoni standard, ma che nell’insieme risultano magnetiche ed affascinanti.

Ultimamente, però, girando tra le pagine facebook hanno incominciato a sanguinarmi gli occhi a tal punto che ho tentato di cavarmeli con un cucchiaio rovente, ma visto che non ho avuto il coraggio, ho deciso di scrivere questo articolo. La mia voglia di suicidio è iniziata quando ho visto spuntare come funghi (avvelenati) miriadi di fashion blogger che aprivano gli armadi di casa loro e autoproclamarsi “Fcb” ossia “fashion curvy blogger”.

E così ho visto la rivolta delle ciccione in leggins che si affannava a commentare con slogan tipo: “Grasso è bello”; “Le ossa ai cani”; “Brutto è bello”. E a seguire tutta una serie di prolassi cutanei, sharpei ambulanti che tra le pieghe hanno culture di muschi e licheni non trascurabili, smagliature fantasiose che tutte mostrano con orgoglio, manco fosse il fulmine di Ziggy Sturdust, e cellulite che pare una ripresa satellitare del Grand Canyon.

E a questo punto ho capito che quel giorno è arrivato: la gente ha preso troppo sul serio le campagne sulle pari opportunità e l’accettazione della diversità, e ora il modello non è più l’anoressica che muore a trent’anni e che ha passato gli ultimi sei mesi in un reparto d’ospedale in alimentazione forzata, ma bensì la “donna jabba” rimasta incastrata nella sedia a fare video su quanto sia bello avere le alucce quando si alza un braccio. Da un eccesso all’altro: una cosa sana mai. Quindi ora essere  denutriti non è più di moda, e le ciccione possono tornare alla ribalta restituendo tutti gli insulti ricevuti in anni e anni di vessazioni. Chissà che, ora che va di moda, non possano chiamare il bullo della scuola ed uscirci?

1150242_707579212601120_409359913_nCosa c’è di nuovo, allora? La dobbiamo chiamare davvero rivoluzione questa? Semplicemente è cambiata la vittima da perseguitare e, come al solito, si dimenticano le sfumature, gli opposti, tutto quello che ci sta in mezzo. E tutti quelli che vengono tagliati fuori subiscono le discriminazioni, se non sono abbastanza forti da dire “E chi se ne frega delle categorie?”.

Ma analizziamo bene le parole. Modello  significa termine di riferimento ritenuto valido come esempio o prototipo e degno d’imitazione”. Ecco, bene: avete presente quando la maestra vi insegnava a scrivere le lettere dell’alfabeto, ponendo all’inizio della pagina il timbro della lettera prescelta, e voi dovevate copiarla fino alla fine della pagina? Ecco, funziona proprio così: il modello indossa, voi prendete spunto e create il vostro stile, esattamente come con la scrittura. La scrittura è qualcosa di strettamente personale, che si allontana completamente dalla letterina timbrata che copiavate all’infinito in prima elementare: la scrittura è solo vostra, e nessun altro potrà mai fare uguale a voi; e logicamente, ci sarà chi scriverà più o meno bene, ma nessuno potrà mai davvero eseguire una lettera identica a quel timbrino.

Ed il corpo va proprio inteso così. Imparare a viverlo, accettarlo, e farlo nostro. Perchè il modello è irraggiungibile, e forse questo è un bene, perchè ogni essere umano è unico e inimitabile. Forse è per questo motivo che certe persone dovrebbero smettere di proporsi come modelli quando non lo sono, e magari sarebbero meglio impiegati in altro, piuttosto che passare il pomeriggio a farsi foto goffe e disgraziate con indosso vestiti ricavati dal copri divano della trisavola che fa cheap and chic, ma che a me fa solo schifo, e ne ho la pagina facebook intasata.

Inoltre vorrei un attimo analizzare la parola curvy: questo è un modo carino per dire “taglia forte”. Praticamente come quando hanno cambiato la parola spazzino con “operatore ecologico”, ma sempre le mani nella monnezza devi mettere. E sempre queste curvy fashion blogger si lamentano del fatto che le modelle curvy sono comunque “troppo magre”e troppo diverse dalle donne vere.

Help-for-anorexiaRibadendo il fatto che le taglie sono convenzionali e che una donna con la taglia 48 non è “di serie B”, curvy per me vuol dire “fuori dai canoni”, con un corpo femminile e pieno di curve. Il che però è certamente diverso dall’obesità patologica, che tra l’altro implica una serie di “effetti collaterali” che vanno ben oltre l’aspetto esteriore. Io continuo a chiedermi perchè i modelli, che in quanto tali dovrebbero avere valenza educativa, finiscono invece per  essere del tutto diseducativi. E mi chiedo anche perchè si finisca sempre ad enfatizzare qualcosa di patologico come lo è l’anoressia o l’obesità. Mi spiego meglio: perchè le modelle non sono dei corpi sani che spingano a condurre una vita sana?

Concludo ricordando che, certamente, nessuno deve essere schernito per le proprie peculiarità fisiche, ma sia il “troppo grasso” che il “troppo magro” anzichè cercare approvazione sulle pagine di facebook dovrebbe riflettere di più a ciò che è la salute fisica, prendendo atto della realtà, anzichè cercando di creare un mondo a misura propria come via di comodo.

Abbattiamo le barriere per chi è meno fortunato e non può cambiare, e, sopratutto: cerchiamo di migliorarci. Sempre.


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Dammi solo una botta. Una manica di botte. Con tanto amore.

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Per la natura dei contenuti riportati sconsigliamo la lettura ad un pubblico minorenne o facilmente impressionabile. Essi non hanno fine esortativo nè didattico. Vi ricordiamo inoltre che praticare sesso sicuro è utile non solo ad evitare gravidanze indesiderate ma anche alla prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili.


Per dover di cronaca ricordo che questa intervista in origine è stata video registrata. Essa vuole dare alcune delucidazioni sul mondo BDSM e qualche accenno su quello fetish. Credo che l’argomento non possa esaurirsi in un articolo, che rimane comunque come “l’argomento visto da una certa angolatura”. Una Mistress è una donna che svolge il ruolo di dominatrice per professione: questo è il caso di Gaia (nome di fantasia), quaranti anni, che ha accettato di fare quattro chiacchiere con noi di MdC.

“È proprio cattiva” è ciò cosa che ho pensato la prima volta che l’ho vista. Una bellezza non convenzionale che però ti fa girare per strada. Sguardo da dura, lineamenti marcati, occhi grigi e gelidi che non dicono nulla, quasi sterili. Capelli lunghissimi ossigenati che però nell’insieme non stonano: la scena è sempre sua, ed è lei che decide cosa sia giusto o no, è lei che fa il bello e il brutto tempo.

Gaia vive in una cascina fuori mano che si è costruita da sola, con i soldi guadagnati col suo lavoro da mistress. “Qui c’era solo un piccolo terreno che ho ricevuto in eredità, e pian piano ci ho costruito e l’ho ampliato”. Mentre mangiamo tranquillamente in una bellissima giornata di sole, mi racconta la sua storia Ho incominciato per vanità. Tutti a lavoro mi dicevano quanto fossero belle le mie mani e i miei piedi, e così, ho deciso di utilizzare queste mie qualità al di fuori. E’ incominciata come una velleità che ingrandiva il mio ego a dismisura”.

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L’immagine non rappresenta l’intervistata nè alcuna persona a lei collegata

Hai avuto una maestra? Cioè come hai iniziato?
Semplicemente un mio collega provolone mi ha fatto la proposta. Ricordo che in un sms, quando ancora avevo la tua età, mi fece la proposta e mi avrebbe pagato profumatamente, per passare un pò di ore a casa mia a toccarmi, accarezzarmi e leccarmi i piedi dopo aver lavorato tutto il giorno. Da lì in ufficio si sparse la voce e mi arrivarono sempre più  richieste e la cosa si è evoluta: alcuni non volevano semplicemente leccarmi o accarezzarmi i piedi, ma volevano essere sottomessi, e la cosa mi eccitava sempre di più, perchè la mia natura è di dominatrice, come tu ben sai. (ride ndr)

Ci racconti un tuo incontro tipo?
Solitamente indosso vestiti da sera e curo moltissimo il trucco e accolgo il mio cliente qui, dopo esserci accordati sulle sue esigenze e previo pagamento (sorride tra se e se, ndr). Solitamente mi chiedono di avere i miei piedi, c’è chi puliti, chi sporchi, con delle scarpe particolari, tipo décolleté o tennis, oppure c’è chi vuole essere messo sotto. Questi sono i miei preferiti, soprattutto quando sono nervosetta: meglio di una corsa. Quando mi dicono che vogliono questo (essere maltrattati, ndr) incomincia un gioco subdolo ancor prima di vederci: decido io il giorno e l’ora in cui avverrà l’incontro, cosa dovranno indossare, e capita anche che all’ultimo momento disdica e cambi data. Solitamente rimangono qui per due o tre ore e loro mangiano nella ciotola del cane, mentre io pranzo tranquillamente al tavolo. Per il bagno c’è la sabbietta del gatto, oppure possono farla in giardino, raccoglierla e riportarsela a casa.

Mi ero immaginata roba in pelle, frustini, manette…
Beh, vestiti in pelle se me li richiedono sì, ma tutta quell’attrezzatura credo che dipenda dal carattere della mistress. Il mio è un gioco molto mentale, anche se mi è capitato di utilizzare lo scudiscio, ma di solito uso più calci e pugni, stando attenta a non lasciargli segni in faccia, o comunque, magari, sono sposati, e non posso lasciargli segni addosso.

Nelle tue prestazioni sono compresi i rapporti sessuali? (Con un’espressione di stizza tipo “O ma che sei fuori?” mi risponde):
In un rapporto del genere qualunque cosa di direttamente attinente al sesso non può essere neanche minimamente concepita: io sono la loro Dea e possono solo sfiorarmi con questi atti di sottomissione. Solo in alcune occasioni possono vedermi senza nulla sopra, ma ovviamente la tariffa sale di moltissimo e non possono toccarmi, oppure li bendo e mi avvicino con i seni a loro, per farglieli sentire, ma non possono toccarmi in nessun modo. Io decido qualunque cosa, io ho sempre il controllo.

Ma non hai paura a far venire sta gente in casa tua? Non hai paura che ti capiti qualche malintenzionato?
Diciamo che i miei contatti, per potersi permettere questi vizietti, sono facoltosi e hanno molti soldi. C’è gente che manco t’immagini. E comunque molti sono contatti che frequento da anni ed è stato tutto un passaparola partito dall’ufficio, in cui non lavoro più. Sai, mi diverte pensare al lavoro che fanno, a come la gente li vede, li immagina, alla loro posizione nella vita di tutti i giorni, e poi ci sono io che li metto a pecorina. Poi so di gente (altre mistress, ndr) che ha il sito e tutto, ma non è roba che fa per me. Io sono talmente brava nel mio lavoro che i miei clienti mi consigliano, e dopo qualche scambio di foto con il nuovo contatto, riesco sempre ad allargare la clientela e a rendere tutti felici e soddisfatti.

Femdom-Mistress-SlaveQuindi tu ricevi solo uomini o anche donne?
Qualche acida malchiavante la maltratterei volentieri, ma sarà che sono etero, sarà che il mio lavoro mi deve piacere ed eccitare, non mi è mai capitata una richiesta con una donna. Ammetto però di avere qualche amicizia femminile particolare, con cui “ci sono quasi arrivata” (ad un rapporto sessuale, ndr). Ma anche questi son solo giochetti che rimangon lì appesi e che lascian il tempo che trovano.

A quanto ammontano le tue tariffe?
Sai che non è carino chiedere queste cose? (mi fa l’occhiolino, ndr). Fai conto che tre ore di leccata di piedi sono trecento euro. Per prestazioni varie, tra cui soggiornare per una settimana in vacanza con uno ho chiesto 5.000 euro.

6083086d53f2d007abfe7af803c5e4f7È il lavoro che tutti sognano, allora! Soprattutto in un momento del gente, devo dire che è molto allettante…
No. E’ un mondo che ti assorbe. E’ un mondo di merda, a volte vedi le miserie umane, a volte vedi la gente più subdola, a volte rimani incastrata nella tua vanità e non è facile reggerlo: devi avere nervi saldi e forse non andare oltre certi limiti. Sembra divertente, facile, ma mentalmente è stancante, infatti per alcuni periodi stacco e mollo per un pò. Tanto quelli più soffrono a non vedermi e meglio è! (sorride tra sè e sè, ndr). Questo discorso lo feci già a qualcun altro, e ti assicuro che dissuado chiunque ad intraprendere questa strada. Se vuoi usare il sesso, la carnalità, il tuo corpo per intero, nel lavoro, devi essere forte e non tutti sono fatti per questo. Ad un certo punto ero talmente convinta di essere la più bella e ricercata del mondo, che incominciai anche a prostituirmi, ed ero talmente ricercata che potevo chiedere qualunque cifra: tutti volevano la novità del momento. Ci fu una volta in cui un vecchio porco di 70 anni mi chiese di succhiarglielo, ma voleva anche degli spettatori e allora gli portai come spettatrice questa ragazza di 19 anni: giovincella universitaria che non so se fosse più divertita dalla situazione o dai soldi facili. E questo ha avuto un orgasmo, mentre io stavo in ginocchio a spompinarlo e lei doveva guardarci vestita da scolaretta e un paio di occhiali da sole. Lì non ero più la dominatrice, lì il mio lavoro stava dominando la mia vita e, a un certo punto, dopo una lunga pausa rincominciai a fare la mistress, senza alcun tipo di prestazione sessuale.

Beh, l’importante è essere consenzienti: nessuno ha mai costretto nessuno, da quello che racconti.
Infatti è un gioco di adulti che va molto oltre, tu diresti che è “una filosofia di vita”, prima o poi mi sa che fondo una chiesa su sta cosa! (esplode in una sonora risata, ndr).

Da quello che mi racconti mi sembra molto labile il confine che c’è tra la tua vita lavorativa e quella privata.
Più che altro mi sa che io non ho vita privata: ho i miei clienti, i miei animali, e le sbarbine come te che mi rompono con ‘ste interviste (sorride, ndr). Per ora sono soddisfatta così, ma non so cosa farò: so che tra poco avrò messo via abbastanza per stare tranquilla, ma non ho progetti certi. Per ora non voglio nessuno nella mia vita, solo mi è dispiaciuto non aver potuto lasciare un figlio: ecco, questo mi manca! Forse è per questo che ti sopporto e ti lascio usare il bagno! (scoppiamo entrambe a ridere, ndr)

Gaia stiamo per concludere la nostra intervista. Vuoi dirci qualcosa?
Studiate. Voi che ne avete avute le possibilità fatelo: vedo su facebook diverse mistress che offrono i loro servizi e ti dico per esperienza che se questo lavoro non ti piace davvero, non ti “offri” veramente al cliente, questi se ne accorgono e vanno a cercare altro. Tutte ste donnine sono solo delle semplici mercenarie, che non son capaci. È come quando mangi una torta imbustata della Mul**o Bi**co che è fatta con lo stampo e ti accorgi della differenza che c’è con la torta che ti faceva tua madre, che non può fare nessun altro, e che ti faceva con amore. Non è un qualcosa che possono fare le ragazzine per guadagnarsi qualche soldo facilmente. Mistress ci si nasce.

La redazione di MDC ti ringrazia e ti augura buon lavoro!


Nota: Il termine BDSM è un acronimo che identifica e definisce un insieme di pratiche relazionali e/o preferenze sessuali, tra due o più persone adulte basate sulla dominazione e la sottomissione. Chi esercita l’autorità è detto master o dominatore/dom, chi subisce l’autorità è lo slave o sottomesso/sub, mentre uno switch interpreta entrambi i ruoli. Queste pratiche, che fuori da un contesto di piena consensualità sono comunemente assimilate alla violenza sessuale, diventano, all’interno del BDSM, fonte di soddisfazione reciproca nonché stimolo per la costruzione di un più profondo rapporto interpersonale. Per feticismo si intende la parafilia consistente nello spostamento della meta sessuale dalla persona viva nella sua interezza ad un suo sostituto; ciò che la sostituisce può essere una parte del corpo stesso, o una qualità, oppure un indumento, o ancora un qualsiasi altro oggetto inanimato. In sostanza, quindi, il feticista è colui che prova attrazione sessuale per qualcosa che fuoriesce dai canoni della sessualità tradizionale che presuppone i genitali quali oggetti libidici primari.


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Banchettare disturbi alimentari

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Sembra quasi che avere un disturbo alimentare nel 2015 sia come prendersi il morbillo. Di diverso, rispetto a qualche anno fa, è che se ne parla molto di più e forse questo, per un certo verso, è stato negativo in quanto oltre agli esperti, ne parlano i giovani, soprattutto attraverso i social network.

Dico negativo, nel momento in cui ci sono stati molti casi di emulazione, quasi come se andare in bagno a vomitare il pranzo fosse diventato un hobby, un po’ come ascoltare musica, fare pilates o andare a pesca. Con queste parole non voglio certo sminuire e vanificare un disagio così grande, che oltre a condizionare negativamente la vita delle persone e causare sofferenze di ogni tipo, può condurre alla morte, una morte spesso accompagnata da una lunga e dolorosa agonia.

Sfatiamo innanzitutto un mito: i disagi legati all’alimentazione non sono prettamente femminili, ma colpiscono anche gli uomini. Un celebre caso è quello di J.M.Barrie, ossia l’autore del famosissimo libro Peter Pan. peter-pan-y-wendyInfatti lo scrittore, oltre a quest’opera che noi conosciamo grazie al celebre riadattamento di Walt Disney, ci ha lasciato molto altro materiale letterario in cui il copione è sempre il medesimo: c’è un mondo dei bambini intoccabile e separato che non si vuole abbandonare, si è talmente leggeri da poter volare e se non si mangia si assumono caratteristiche particolari e si acquisiscono poteri magici.

Dall’analisi delle opere, incrociata con lo studio della biografia di Barrie, è risultato che, purtroppo, egli aveva subito un grosso trauma durante la pubertà: la morte del fratello minore, evento tragico che mutò l’equilibrio familiare a tal punto che l’autore decise di consolare la madre rinunciando a mangiare e rimanendo piccolo per riempire il vuoto lasciato dal fratello morto.

Ma andiamo per ordine, o meglio, ricordiamoci innanzitutto che anche se in questo articolo verranno elencati una serie di sintomi, non significa che per tutti debba essere così: ci sono infinite sfumature con cui possono colorarsi queste malattie, perchè ogni essere umano è diverso e ogni storia a sè. Si definisce anoressica, sostanzialmente, una persona che si alimenta in maniera insufficiente. Alcune ragazze affette da questo disturbo si cimentano in smodata attività fisica e sono altresì dette iperattive. Costoro inoltre tendono a voler eccellere in alcuni ambiti della loro vita, in primis nei voti a scuola.

Si definisce invece bulimica una persona che compie abbuffate e successivamente vomita, o alterna periodi di digiuno. Alcuni esperti hanno individuato come caratteristica principale che differenzia le due categorie, il fatto che, mentre l’anoressica fa di tutto affinchè il proprio disagio sia conosciuto dagli altri, quasi come a voler attestare la propria presenza fisicamente nel mondo, la persona bulimica, invece, lo nasconde con tutte le forze, come a voler sparire e ad annullarsi.

Io credo sia sbagliato parlare di categorie ben distinte nella società di oggi, ma soprattutto, per esperienza personale, posso dire che difficilmente si può trovare un’anoressica o una bulimica “pura”. Anzi, molto spesso in entrambi i casi, osservando da vicino la malattia, pare quasi che una sia la continuazione dell’altra, e sembra che la stessa persona che ne è affetta passi da periodi bulimici di riempimento a periodi anoressici di svuotamento. E il riempimento e lo svuotamento sono legati soprattutto a una questione emotiva, connessa alla psiche. Quindi non solo una questione fisica, per quanto questa sia la componente della malattia più evidente.

munch20pubertad1Volendo, invece, ricercare le cause di questa malattia, ci sono diverse tesi: la più gettonata è quella che mette alla gogna esempi di corpi diffusi dai mass media irraggiungibili, che indurrebbero soprattutto le giovani adolescenti ad assumere condotte alimentari sbagliate. Un’altra possibile chiave di lettura è quella che mette in risalto una vita vissuta dal soggetto come piena di oneri e costrizioni, che trova in questa malattia un modo per avere sotto controllo il proprio corpo.

E un esempio ne sono le sante anoressiche medievali: l’anoressia e le altre manifestazioni corporee diventano nel Medioevo l’unica possibilità per la donna di affermare il proprio potere nel ruolo sociale, mistico-religioso. Una donna era destinata a sposarsi con chi era designato dalla famiglia di origine, oppure a entrare in un convento di clausura. In tal caso, però, non poteva studiare e non acquisiva il potere clericale di parlare in pubblico e predicare.

Solo una rinuncia eclatante al proprio corpo permette alla donna di favorire, trasmettere e viversi le sensazioni e i desideri come manifestazione di fede ed espressione religiosa. La “Santa anoressica” trova così una possibile conferma nel proprio ruolo di potere mistico, attraverso la possibilità di convincere della sua santità i confessori spirituali a cui veniva affidata e a cui non cedeva, come non aveva ceduto alla famiglia, quando le veniva richiesto di guarire riprendendo a nutrirsi. L’anoressia, insieme alla flagellazione e altre sofferenze corporali, diventa il mezzo per avviare alla santità la donna il cui corpo era simbolo di lussuria, debolezza e irrazionalità.

Infine, diversi neuropsichiatri adducono a questo fenomeno patologico una connessione con l’aver subito abusi nel periodo dell’infanzia: la manifestazione della malattia sarebbe l’affiorare, il rappresentare concretamente un dolore con radici ben più profonde. Oppure un soggetto abusato troverebbe, come strategia-via di fuga questa malattia, che lo farebbe rientrare in possesso di un corpo abusato da qualcun altro.

Alla luce di queste informazioni, l’elemento per me più evidente è il vissuto di un corpo che non si riesce ad accettare, soprattutto in una società dov’è onnipresente nei mass media, ma che allo stesso tempo viene negato, come se vi fosse una competizione tra mente e corpo, e una totale scissione: solo una delle due parti deve essere la più nutrita.

E proprio perchè vi è una componente decisionale molto forte da parte del soggetto, a livello educativo, frasi che lo esortino ad alimentarsi, costrizioni o la stessa alimentazione forzata, non conducono a nulla: chi ha un disagio alimentare, se ha deciso di morire lo farà, magari anche solo perchè quella è l’unica decisione che ha preso nella propria vita.

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Per questo, quando a livello professionale incontro una persona con tali peculiarità, mi limito a chiederle se sa a cosa va incontro, perchè credo che tutti debbano essere liberi di decidere cosa fare della loro vita. Chiedo loro solamente di prendere in considerazione i possibili effetti della loro scelta.

Infatti, un neofita di questa malattia non sa che:
• La mattina troverà sul cuscino lo scalpo, e in alcuni casi rimarrà completamente pelato;
Rimarrà sdentato, a causa dei succhi gastrici, o per la cattiva nutrizione;
• Comincerà ad avere sbalzi di temperatura allucinanti, per cui a dicembre, in piena bufera di neve, si ritroverà a maniche corte, oppure col pull over in spiaggia;
• La propria vita, i propri interessi, ruoteranno intorno a questo e niente altro: si passeranno intere giornate a pensare a cosa fare in relazione al cibo;
• Scarsità di cibo significa non riuscire a fare nulla. Quindi addio a qualunque tipo di hobby;
• Se si sta facendo questo per dimagrire, e quindi essere più piacevoli agli occhi degli altri, bisogna ricordare che uno degli effetti collaterali è proprio la carenza ormonale, che quindi ridurrà il desiderio sessuale e, comunque, non si arriverà mai a piacersi; perciò, difficilmente, ci si farebbe mettere le mani addosso da qualcun altro;
• Le donne vanno in amenorrea (perdita del ciclo mestruale) e dovranno così rinunciare a un qualsiasi desiderio di maternità. Qualora il ciclo tornasse, magari dopo un miglioramento, sarà accompagnato da dolori lancinanti, al di fuori della norma;
• La fine migliore che si può ipotizzare è quella di un collasso della valvola mitrale, o di tutti gli organi interni, preceduto da mesi in cui ci si sveglia di notte, sudando freddo, in aritmia, cercando di mangiare qualcosa per disperazione, ma tutto quello che si cerca di infilare in gola, viene automaticamente rigettato all’istante. Chi è sopravvissuto racconta di aver avuto una sensazione di angoscia indescrivibile e di “aver sentito il cuore staccarsi, esplodere letteralmente”.

Però, la responsabilità di scegliere tra questi risvolti e un futuro migliore alternativo rimane sempre al soggetto, ossia alla persona che è l’unica padrona della propria vita. Essa deve però, a parer mio, aver possibilità di scegliere solo dopo un’accurata analisi della situazione e non pensando, semplicemente, che non mangiando e vomitando otterrà “un corpo migliore, ideale, perfetto”.


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Io dico no al sesso prematrimoniale e dico sì a valsoia

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Il giorno 28 maggio 2015 il programma televisivo AnnoUno ha dato il meglio di sè. Il filo conduttore della serata era  il cattivo utilizzo di internet. Si è discusso sulla necessità di una regolamentazione, quindi una censura dei contenuti, perciò sono stati trattati i seguenti argomenti: la dipendenza da videogames, che mi rifiuto di commentare in quanto è già stata brutalmente criticata (e non a torto) poichè le informazioni date erano errate o comunque non venivano contestualizzate. Successivamente è partito un tristissimo servizio sul cyber bullismo: argomento importante, se fosse trattato con i dovuti modi; e infine il servizio chiave che mi ha fatto riflettere talmente tanto, che ho sentito il bisogno di spenderci alcune parole.

Il servizio finale trattava la sessualità su internet, in particolare voleva essere una critica nei confronti delle ragazzine che per una ricarica si mostrano nude, sexy e ammiccanti in video e foto.

SEXTINGPer valorizzare questa tesi è stata scelta una degna vittima sacrificale: S. A. Se andate a cercare la puntata scoprite il nome e potrete anche cercarla su Facebook. E a mio avviso non è neanche molto bella, ma de gustibus. Questa ragazza passa le giornate di fronte al pc a scattarsi foto ammiccanti e a girare video “sexy” (ma attenzione: mai nuda, perchè lei ci tiene a ribadirlo, diverse volte, che non è una puttana).

Non mi soffermerò neanche sul cattivo gusto della ragazza, sull’inesistenza di cultura – e di congiuntivi (e ricordo in questa sede che il congiuntivo non è una malattia infettiva). Non mi voglio soffermare neanche sul come AnnoUno l’abbia esposta alla carneficina, con questo servizio.

Però a questa ragazza una cosa voglio riconoscerla: senza una laurea al Politecnico e tanta semplicità, è diventata imprenditrice di se stessa. Le sue prestazioni virtual sexy le fruttano 1.000 euro al giorno: le basta ascoltare i suoi “clienti” al telefono, fare un paio di foto al giorno, coltivare la public relation virtuale e la signorina arriva a fine mese. I regalini fioccano, tanto che in uno dei suoi ultimi post su fb, chiede a qualcuno di regalarle un pc.

silvana 2

Un applauso a lei e alla clientela: io mi sto chiedendo cosa sto, ancora, aspettando qui. E quindi? Quindi nulla: se a lei piace e ha trovato la sua strada, che lo faccia. E invece no, signori: perchè la mitica Belen, che era in studio, e poverina ci ha raccontato, fino a due secondi prima, come lei ci abbia fatto il callo alla gente cattiva che la insulta nel web, solo perchè lei è un personaggio pubblico, e di quanto sia dura essere perennemente esposta a critiche. Allora la nostra forte Belen che è sopravvissuta a questo cyber bullismo, in maniera impavida e stoica, con l’espressione di chi ne ha viste tante, tira fuori tutta la sua integrità morale e lo dice: «Ma questa cosa è proprio triste! Non si faaaaa, la ragazza manca di contenuto». Il bue che da del cornuto all’asino, ma qualcun altro precede la mia obiezione.

Infatti arriva lui, l’opinionista giovane, che con una semplicità disarmante tappa quelle labbra gommate con la seguente domanda: «Ma che differenza c’è tra lei che si fa le foto in reggiseno e te? Lei fa delle cose e sa che ha un ritorno economico: non è lo stesso motivo per il quale lo hai fatto anche tu?». Ops. E qui ritorniamo al discorso di prima: come posso io criticare una ragazza che ha imparato, attraverso una delle più grandi agenzie educative, ossia i mezzi di comunicazione di massa, che si è importanti e si ottengono cose mostrando il proprio corpo? Come posso chiedere io, a un’adolescente, di vivere una sessualità vera e non mediata dallo schermo di un computer, fatta di foto osè e pippe telematiche?

Semplicemente non posso, perchè negherei la realtà, perchè il web è solo l’enorme amplificatore di una vita reale in cui si allude, ma non si dice, in cui si mostra ma poi si nega, in cui ci si spoglia con facilità, si dicono i propri segreti più intimi al mondo, ma non ci si conosce veramente. Una realtà in cui non ci si tocca più, non si esce a mangiare fuori, tutti insieme la sera, ma si parla da soli in un gruppo di whatsapp.

Ed è triste vedere ragazzine che si atteggiano a soubrette da rivista patinata, ma che ottengono, al massimo, solo il ruolo di attricetta bruciata, ma è effettivamente l’emulazione dell’unico modello che queste ragazze  possono seguire. Perchè mai si dovrebbe rinunciare a fare scatti mezze nude e ricoperte da brillantini, se chi lo fa ha ottenuto fama, successo e milioni? Perchè mai accontentarsi di inseguire e coltivarsi una relazione, quando si può ottenere una gratificazione istantanea attraverso migliaia di like in pochi secondi?

La risposta  giungerà, inaspettatamente, da un educatore mancato, che si trovava in collegamento in studio quella sera: Rocco Siffredi. rocco-siffredi-attoreInfatti lui ci  ricorda che: «(…) la libertà che internet ci ha dato è una cosa importantissima: internet è bella proprio per la libertà, per ognuno di noi, di esprimersi, di fare quello che vuole (…). Lo dico oramai da sempre, ma da prima di internet, che i limiti sono solo per gli adolescenti che stanno imparando la sessualità attraverso noi (pornostar e personaggi pubblici in genere ndr) ed è sbagliatissimo, molto sbagliato: perchè i genitori, nell’adolescenza, non spiegano nulla, preferiscono che siano gli amici; che poi in realtà i veri insegnanti siamo noi, ed è sbagliatissimo! Perchè io, ogni volta che vado in discoteca, nei locali, serate…ho coppiette di quindici, sedici anni dove la ragazza mi dice “Rocco, ma glielo spieghi tu, al mio fidanzato, che non ci serve che cerca di imitarti, che mi prende, mi tira dai capelli, mi da gli schiaffi…cioè, voglio dire: ma questa roba qui, a me non interessa”.

«E’ questo il problema! È spiegare a questi ragazzi che la pornografia non funge come insegnamento sessuale, questo lo dico da sempre: ci dovrebbe pensare qualcuno che è addetto a creare le leggi, quindi insegnarle a scuola. Perchè oramai un dodicenne, tredicenne, è molto avanti: non bisogna vietare, è inutile vietare. Oramai bisogna assolutamente collegarsi con i ragazzi, entrare nella loro testa, e cercare di spiegargli come si fa (…)».

E se ce lo dice uno che fa porno, io mi chiedo: perchè non la smettiamo di millantare una morale e una virtù che non esistono, perchè non ci basiamo sui bisogni reali, e non la smettiamo di negare un bisogno di educazione alla sessualità e all’affettività sano? Perchè dobbiamo sentire, ancora una volta, appelli come quello del presidente della CEI Angelo Bagnasco che chiede di non fare l’educazione sessuale a scuola? Perchè devono esistere campagne pubblicitarie pseudo terroristiche che ci raccontano di una fantomatica ondata di omosessuali che conquisteranno il mondo?

Qua pare che un bel po’ di gente si sia dimenticata di fare i conti con la propria coscienza per ricordarsi che fare sesso è naturale. L’unica cosa contro natura è vietarlo, ma allo stesso tempo bombardarci di corpi nudi e personaggi che millantano imprese sessuali irraggiungibili.


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Usa: le unioni gay diventano diritto costituzionale

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Questa mattina mi sveglio, e in un pacifico e placido sabato mattina scopro che più della metà dei miei contatti hanno l’avatar con i colori della bandiera arcobaleno. Mi chiedo cosa si stia celebrando oggi, e temo che sia una nuova ed inutile trovata in stile catena di Sant’Antonio, e che a sto giro stiamo lottando contro il cancro che colpisce i My Little Pony. Allora decido di informarmi e devo dire, che rimango sorpresa piacevolmente: negli Usa vi è stata una sentenza storica da parte della corte suprema, per cui, le nozze gay sono diritto costituzionale. Tutti gli stati del Paese dovranno permettere a due persone dello stesso sesso di sposarsi.

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Perciò, non solo la comunità LGBT ha raggiunto un importantissimo obiettivo, ma è stato riconosciuto il fatto, che ciò che hanno conquistato, era già loro di diritto, in quanto “cittadini”. E per celebrare questo grande passo verso l’uguaglianza, la Casa Bianca si tinge dei colori dell’arcobaleno. Sorrido inebetita e poi ci rifletto un po’ su: un tizio nero è il presidente degli Stati Uniti, dopo anni e anni di soprusi nei confronti  di questa etnia, le coppie omosessuali  possono coronare il loro sogno  d’amore, e allora… ci deve essere per forza qualcosa che non va, è tutto troppo bello!

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Quindi mi affaccio alla finestra e mi aspetto le sette coppe dell’ira di Dio che si riversano sul mondo, perchè  i froci e i negri hanno preso il sopravvento, perciò Dio ci deve castigare tutti e il giorno dell’armageddon è arrivato. Siccome io gli esami di coscienza me li faccio, so che questo è anche il mio giorno, e mi chiedo se ho i capelli abbastanza decenti per morire, ma poi ci penso e credo che nessuno che conosco mi vedrà, perchè conosco davvero poche persone virtuose e senza peccato, e penso che anche loro saranno morti e stecchiti come me. Quindi sospiro, e sono sicura che la figura di merda a cui vado incontro non sarà così grande. Tanto i virtuosi… chi li conosce?

E niente. Le stelle non esplodono, l’occhio di Sauron non si vede, di cavallette neanche l’ombra: è solo sabato 27 giugno, fa un caldo quasi bestiale, e puoi morire solo di noia. Facebook, con l’applicazione dedicata è stata più che gentile e rispettosa, in quanto è il singolo a decidere se aderire o no ai festeggiamenti. Non è stato cambiato l’intero layout del social network, perchè la diversità va sempre tenuta in considerazione, e quindi, dobbiamo tenere sempre conto dei razzisti omofobi conservatori a cui la storia dei matrimoni gay potrebbe non andar giù.

E mentre una Nazione intera celebra l’amore libero, intanto, in Italia, Mario Adinolfi si butta a terra e piange, raccontando che degli hacker hanno attaccato il “giornale” La croce e altri siti cattolici, impedendo così la libera espressione (perchè impedire alla comunità lgbt di sposarsi non è lesione dei diritti umani, invece). Poi, verso le 15.30, sempre lo stesso Adinolfi, paragona le persone che hanno aderito al #celebratepride, cambiando la propria immagine profilo, a “dei fascisti “omo-logati”” (cit.) che al posto della camicia nera hanno la foto profilo arcobaleno.

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Il vaticano rimane ancora radicato sull’idea per cui le nozze gay sono una sconfitta per l’umanità. Io mi chiedo ancora come gente che va in giro in gonnella, e parla con l’amico invisibile, possa cercare di parlare di normalità e famiglia naturale. L’unico passo avanti verso un possibile risvolto in Italia, risale al 2014, con il registro delle Unioni Civili istituito dalla giunta Pisapia, e peraltro valido solo per i residenti a Milano.

Il PD rimane scisso sulla questione, in quanto vi sono ancora molti conservatori all’interno del partito. L’unico che getta un anelito al cambiamento è Roberto Speranza, deputato del PD, che dichiara “La società è più avanti, il PD ignori i conservatori e punti ai matrimoni gay”. E poi basta: solo promesse, discussioni da bar, che in una attitudine tipicamente italiana, vengono tirate fuori, quando è il momento di accaparrarsi voti e simpatie.

Usiamo i gay quando ci servono, che lo sappiamo che son tanti, ma lasciamo le problematiche sempre aperte, in modo da poter strumentalizzare ogni volta la questione, e per far finta di essere moderni ed innovativi. Esattamente come quando si lasciano i campi rom abusivi, per mesi e anni, in un posto, che poi vengono smantellati in fretta e furia dall’assessore/imprenditore/sindaco di turno, che deve far vedere che “lui agisce subito ed in fretta”.

gay marriageInsomma: in Italia la comunità LGBT è la problematica “apri e gusta” pronta all’occorrenza che serve per avere sempre qualcosa di cui discorrere e dibattere. Io di fronte a questo triste quadro faccio solo una riflessione: gli italioti si fanno soggiogare da persone malate, perchè i razzisti, gli omofobi, gli integralisti -portatori di una patologia schifosamente infettiva e distruttiva – vogliono imporre una normalità artificialmente costruita, su basi patologiche, etichettando come malate e sbagliate, P-E-R-S-O-N-E perfettamente normali che rivendicano, semplicemente, il loro diritto ad amare e a costruirsi una famiglia. Perchè gli omosessuali esistono, almeno, dal VI secolo A.C., perchè l’omosessualità esiste in natura, e perchè la gente malata è quella che va a controllare morbosamente la sessualità altrui.

E cari bigotti: mentre voi vi punite inginocchiandovi sui ceci per espiare le colpe ed i peccati altrui, mentre voi fate l’amore di nascosto, poco e male, sopportando un’insoddisfazione lancinante, i gay continueranno ad amarsi, anche senza il bisogno di un contratto che li legittimi.

Per ultimo, vorrei ricordare, che nella Bibbia c’è scritto “Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza”. Questo vuol dire che a Dio piace il sushi, la Coca C**a e praticare l’anal. Questo vuol dire che siamo tutti liberi di peccare un po’ come ci pare, e che – se esiste –  dovrà giudicarmi Lui al momento giusto. E di certo non chi è sempre pronto ad indicare la pagliuzza nell’occhio altrui, dimenticandosi la trave che ha nel culo.


Archiviato in:Cultura e Diritti LGBT, Individuo e Società

Pom**ni su Salvini

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Già la Nappi gli aveva dedicato una gang bang multietnica, a cui lui non aveva risposto. Ma “SALWEENIE”, l’ultima opera di Mister Napalm, lo ha lasciato, è proprio il caso di dirlo: a bocca aperta e non è proprio riuscito a mandarla giù.

NappiL’artista lo ritrae infatti con la tipica maglietta verdognola, mentre con occhi sbarrati riceve spremuta zigana appena fatta. “Come quello della Lola” mi viene da dire. Ma Salvini, evidentemente, preferisce solo prodotti Padani DOC, perchè – secondo le parole dell’autore stesso – ha fatto censurare e rimuovere l’immagine, nonostante gli sfottò su di lui nel social network non si risparmino.

Ma tale vicenda mi riporta la mente al tragico episodio, avvenuto il 7 gennaio 2015, contro la sede del giornale satirico Charlie Hebdo: in quel caso l’Isis ha voluto chiudere per sempre la bocca ad un artista che aveva ironizzato, con delle vignette, su Maometto.

Certamente, nel caso di Salvini e Mister Napalm, non ci sono stati morti, ma in realtà di feriti ne abbiamo, ossia, ancora una volta, è stata ferita la libertà di espressione dell’individuo. Ricordiamo che secondo l‘Articolo 19 della Costituzione

Ognuno ha diritto di esprimere e diffondere liberamente le sue opinioni con parole, scritti e immagini, e di informarsi senza impedimento da fonti accessibili a tutti. Sono garantite la libertà di stampa e d’informazione mediante la radio e il cinematografo. Non si può stabilire alcuna censura.”

Anche se è doveroso ricordare che in Italia il diritto di satira non è contemplato nell’ordinamento, che invece prevede e tutela il diritto di cronaca e di critica. La giurisprudenza italiana, invece, ha riconosciuto tale diritto, pur non garantito dalla Carta Costituzionale e da nessuna Legge, assimilandolo all’ilarità.

salvini-11Ma io mi chiedo: perchè far eliminare l’immagine dal web? Una questione di cattivo gusto? Beh, mi pare che siamo bombardati costantemente da “immondizia” ben peggiore. Reato di diffamazione? La risposta è ancora una volta negativa: è ben chiaro che quella che viene presentata da Mister Napalm è la libera interpretazione della realtà, attraverso delle allegorie, e l’opera non è certamente presentata come una “copia dal vero”.

Sostanzialmente, nessuno potrebbe mai pensare che realmente Salvini si sia intrattenuto con degli altri signori per sollazzarsi con del sano bukkake. Però Salvini l’ha presa sul serio, e questo è il dato peggiore. Salvini non ha saputo lasciar perdere, farsi quattro risate, ma ci ha confermato che lui le cose che dice le pensa davvero: vorrebbe realmente eliminare le minoranze, e ha sentito anche il bisogno di ribadire la sua eterosessualità. Non si sa mai che la sua autorità da maschio alfa venisse minata.

Io di fronte a una reazione del genere sono giunta ad una riflessione: per poter comprendere il sarcasmo e l’ironia bisogna essere intelligenti, e non ottusi fondamentalisti ignoranti. Non saper ridere è un segno di immensa limitatezza che non può certo accostarsi ad una figura politica che prende decisioni importanti per il proprio Paese.

Qua visibile l’opera d’arte incriminata e bandita, senza censura.


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La Lucarelli insegna: “così sono i veri uomini”

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selvaggia

Ogni sei mesi la posto di nuovo, amici uomini, così vi fa da promemoria:

Se fossi un uomo, se io oggi fossi un uomo, se avessi anche solo l’opportunità di essere uomo una settimana soltanto, io le donne le farei capitolare tutte. In questi tempi mesti fatti di indecisi, irrisolti e anaffettivi perennemente in cerca di vie d’uscita e scorciatoie, perennemente preoccupati di fare una scelta perchè anche agli scarti una botta non si nega. Ecco, In questi tempi qui che sintetizzo e semplifico perchè sarebbe lunga, se non lo avete ancora capito, se volete davvero una donna, siate l’uomo che fa, che decide, che ci dice cose perentorie e assolute tipo “Da oggi ci penso io”, “Ora a te ci penso io”, “Sono qui per questo”, “Voglio te e e il resto non mi interessa”, “Tu sei mia” e frasi da film che sono da film da quando non le dice più nessuno. Prendete decisioni, portateci a cena dove dite voi, prenotate voi la vacanza, marcate il territorio con virilità, senza gelosia scema ma anche senza quell’atteggiamento fastidioso che ora va tanto di moda della serie “Fai come te pare tanto non sono geloso”. Trovate il tempo per noi e se non lo avete, dateci pure i ritagli, ma che siano di passione. Fateci sentire fighe. Ricordatecelo. C’è gnocca ovunque, sfacciata, esibita, regalata. Ci serve, e tanto, avere un uomo accanto che ci metta su un piedistallo e ignori quelle sul cubo. Non lo fa più nessuno e voi, fessi, non lo avete capito. Diteci cosa volete. Prendetevelo. Vogliamo essere conquistate senza avere il tempo di fiatare. Siate maschi, Dio santo.

Amen.

A quanto pare noi insulse donne dobbiamo appenderlo sul comodino e farne un mantra, e subito a fianco una foto della Lucarelli sotto cui apporre un grosso cero. Lei si limiterà, per fortuna, a ricordarcelo ogni sei mesi, tipo le apparizioni di Medjugorje. Grazie a Dio. In questa società tanto smart che cambia così velocemente, e in cui è davvero difficile capire chi si è e quale sia il proprio posto nel mondo, per fortuna c’è la Lucarelli, che ce lo dice come devono essere gli uomini e le donne. Se una Lucarelli non ci fosse la inventerei, perchè lei sì che è una vera donna, decisa, che sa cosa vuole.

La Lucarelli, infatti, ha deciso di spiegarcelo bene in cosa noi donne sbagliamo, o meglio: pare che il monito sia rivolto piuttosto agli uomini che, a questo punto, sembra si siano un po’ rammolliti e che ci abbiano lasciato troppa libertà. L’apertura è minacciosa: gli uomini sono suoi amici, ma due parole dopo glielo ordina che se lo devono tenere bene a mente, si sa mai…

Ma andiamo subito ai passi più salienti:
io le donne le farei capitolare tutte” come se tra i due sessi ci deve essere chi vince e chi perde, e in questo caso abbiamo il ritorno del maschione alfa che tira fuori la clava impolverata dall’armadio, e rincomincia a prendere decisioni, a far sentire il proprio peso e la propria presenza.

fred-and-wilma-flintstonesE ancora: “(…) Prendete decisioni, portateci a cena dove dite voi, prenotate voi la vacanza, marcate il territorio con virilità (…)”. MARCATE IL TERRITORIO CON VIRILITA’. Le immagini che mi si aprono qui sono le più svariate, ma soprattutto mi immagino un uomo che, letteralmente, urina sulla propria fidanzata/moglie/compagna in modo che tutti gli altri possano sentirne l’odore e starne alla larga. Come se le donne, pur essendo già impegnate, passassero la giornata a cercare di sedurre tutto il genere maschile, e tutti i “maschi” fossero mossi da una forza istintuale che va contro la ragione, spinta che a questo punto si placherebbe solo con l’odore rilasciato da un altro maschio. Un po’ come i cani in calore, insomma.

“(…)Trovate il tempo per noi e se non lo avete, dateci pure i ritagli, ma che siano di passione (…)”. In questo passo, invece, sembra si stia ridando un po’ di dignità anche alla donna, perchè, insomma: si sa che anche il genere femminile ha certe esigenze da soddisfare, magari anche solo nel tempo libero, ma quando ci vuole ci vuole. E anche qui un vero maschione virile non può essere stanco, e non farcela, ma deve adempiere al suo dovere e presentare un’erezione sempre pronta all’uso. Un po’ come le scatolette di tonno con la nuova confezione apri e gusta.

“(…) Fateci sentire fighe. Ricordatecelo. C’è gnocca ovunque, sfacciata, esibita, regalata” : siccome le donne si sa, non sono in grado di avere una propria personalità e autostima, hanno bisogno di essere rassicurate dal maschio alfa ma, soprattutto, sembra che esistano tante puttanelle allo sbando che te la sbattono in faccia, ma quelle non sono delle vere signorine, a modo, dei virtuosi modelli da seguire.

Qualche riga più sotto, inoltre, pare che le cubiste siano delle cattive persone. Il componimento si conclude con una richiesta accorata, il cui patos è talmente evidente che io me la sono immaginata proprio nel modo e nella situazione in cui la Lucarelli avrebbe potuto dirlo: tutta nuda, con i capelli scompigliati e uno strap-on, con faccia cattiva, mentre frusta il suo compagno e lo urla a lui e a tutto il genere maschile: Siate maschi, Dio santo”.

pubblicità sessismo

Ho percepito questo messaggio come un’enorme offesa nei confronti di tutto il genere umano: in poche righe sembra che sia stato chiesto alle donne di trasformarsi in piccoli e adorabili bonsai da curare e proteggere dal freddo inverno, di lobotomizzarsi e di diventare incapaci di badare a se stesse, e riaffiorano le diatribe sulle differenze di genere auto imposte, sin dalla più tenera età, dalla nostra cultura ed educazione. In questo caso l’offesa non è rivolta solamente alle donne, ma sembra che anche  sulla testa degli uomini debbano pendere un numero di certe aspettative: loro devono essere sempre forti, essere maschi, essere quelli che non chiedono mai, devono castigare, devono essere la parte forte. D’altronde: accanto a una donna debole e deficiente ci vuole qualcuno che la mette in riga e prenda in mano la situazione, giusto?

E questo stesso post mi riporta alla mente anche la campagna di Adinolfi, quando ci ricorda che i maschietti non devono piangere perchè i veri uomini si devono sottoporre a prove di forza e devono essere virili, non devono mai lasciarsi andare; e allo stesso tempo le donne devono solo occuparsi della famiglia (che donna sei se non ti sposi e non sforni prole a manetta?) e sin da piccole devono giocare con bambole che cagano, pisciano e finte cucine di plastica rosa.

Ma io credo che ognuno possa vivere i propri rapporti di coppia un po’ come gli pare, e il mondo è “bello perchè è vario”, e forse ci sono donne che hanno bisogno di dimostrazioni di forza, che hanno bisogno di essere prese e che non sono in grado di decidere in quale ristorante mangiare, e non voglio certo discutere sui gusti personali, ma piuttosto mi preoccupano messaggi fuorvianti e altamente diseducativi rilasciati da personaggi pubblici. Io, invece, continuo a pensare che gli uomini e le donne siano diversi, e che queste diversità vadano assolutamente rispettate e che sia l’uomo che la donna hanno parimenti debolezze di cui si deve discutere per capire come fare per migliorare la situazione.

pubblicità1E la prima debolezza che esiste quando si parla delle differenze di genere, è l’ottusità della gente che chiede a un altro di essere in un modo ben preciso perchè così deve essere, senza un motivo ben preciso. Io, piuttosto, immagino che non tutte le donne abbiano bisogno di un uomo che le porti al ristorante e che gli dica cosa fare: un uomo, un compagno, ha molte più capacità, e non è una specie di cane mastino che ringhia, sbava, ti difende, getta la spazzatura e cambia le lampadine. Credo che un uomo, un compagno abbia dei sentimenti e a volte si appoggia sulla spalla della propria ragazza e piange, piange a causa delle donne che gettano tutte queste aspettative assurde su un essere umano che ha avuto “la sfortuna” di nascere col pisello.

Gli uomini non acquistano le donne, e siccome nasciamo liberi, non si ha bisogno di essere prese per i capelli, nè di essere portate in giro ed essere mostrate come un trofeo. Stiamo parlando di rapporto di coppia, non di giocare a chi si sottomette, stiamo parlando di rispetto reciproco, stiamo parlando di sentimenti, stiamo parlando di amore. E di forme di amore ce ne sono davvero tante, non c’è solo la coppia tradizionale di cui, nel post sopra, ne traspare, piuttosto, una caricatura, ridotta ad una cosa istintuale e quasi quasi animalesca.

Io mi rendo conto che la questione delle differenze di genere sia estremamente complicata, e sicuramente nè un post, nè un solo articolo potranno, certo, essere esaustivi, ma forse, sarebbe meglio che di argomenti così delicati se ne occupassero figure professionali in grado di poter svolgere analisi antropologiche, e di non inviare messaggi sbagliati e per certi versi offensivi.


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Confronto tra un Master ed una Slave: quando la tortura diventa delizia

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Per la natura dei contenuti riportati sconsigliamo la lettura ad un pubblico minorenne o facilmente impressionabile. Essi non hanno fine esortativo nè didattico. Vi ricordiamo inoltre che praticare sesso sicuro è utile non solo ad evitare gravidanze indesiderate ma anche alla prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili.


Oggi MdC metterà a confronto una coppia molto particolare: Lorenzo e Lilith (nomi di fantasia), un master e una slave che non svolgono questo ruolo per professione ma per piacere. La differenza, rispetto ad una mistress o un master “per lavoro”, è che in un rapporto professionale il rapporto sessuale non avveniene. Al massimo si può arrivare a delle allusioni, in quanto lo schiavo che paga il servizio non è degno di toccare oltre un certo limite il proprio padrone.

Questo caso, invece, è un gioco di coppia molto violento in cui i rapporti sessuali sono ammessi. L’intervista vuole rimanere fedele alla realtà affinché i lettori possano percepire la normalità e la praticità con le quali mi sono stati raccontati tali avvenimenti. Dopo aver riletto l’intervista ho riflettuto e sono arrivata alla conclusione che non esiste una morale univoca , ognuno ha la propria e perciò non mi sento di giudicare, anche perché le persone qui coinvolte sono entrambe adulte e consenzienti. Quello che io ho visto è stata solo “tanta umanità”.

master slave bdsm sessoCiao Lorenzo, innanzitutto presentati. Cosa fai nella vita?
Sono Lorenzo, ho venticinque anni, vado all’università, lavoro nel campo della ristorazione, mi piace fare foto… E mettiamola così: vivo la mia vita. Punto. Convivo con degli studenti, pratico sport, leggo fumetti, guardo film a palla, tantissimi! Mi piace sperimentare cose nuove e stare dove non sono mai stato!

Visto che ti piace sperimentare, parliamo di una cosa che ti piace fare in particolare. Mi hai raccontato che ultimamente hai instaurato, per puro piacere personale, un rapporto master-slave, in cui tu sei il master. Mi racconti com’è nato questo rapporto e come vi siete conosciuti?
Ci tengo a specificare, innanzitutto, che lei ha instaurato questo rapporto con me. Questa ragazza, di un paese vicino al mio, mi ha contattato su facebook. Mi scrive e mi dice “Ciao Lorenzo, ti ho visto in giro, e finalmente ti ho trovato su facebook”. Io la saluto, parliamo in generale, e subito dalle prime parole ho capito che l’ obiettivo non fosse un’ amicizia pura e classica. Ha cominciato a farmi tanti complimenti e io all’inizio ero un po’ scettico: una cosa del genere non capita tutti i giorni, quindi sono rimasto un po’ così. Dopo un paio di mesi in cui lei mi inviava foto nuda, provocanti e ammiccanti le ho scritto “Vabè, allora vediamoci, che ne dici?”

Che reazioni avevi quando lei ti inviava foto nuda?
Partiamo dal presupposto che io non gliel’ ho mai chieste…all’inizio. Era una sua iniziativa, del tipo “guarda questo reggiseno” e c’era una tetta di fuori, cose così. (ridacchia ndr). Rimanevo un po’ scioccato perchè quando una ragazza di vent’anni ti invia foto del suo seno non sai che pensare. Dici “minchia ma questa che cazzo vuole?” Io mandavo messaggi generici, il classico “Che fai? Dove sei?” ma, ti ripeto, non sapevo cosa pensare.

Ti sei trovato spiazzato. E poi quando vi siete visti cos’è successo?
Era pomeriggio, alle 15 circa. Lei era vestita di nero con un giubbotto in pelle lungo che le arrivava alle caviglie, delle scarpe col tacco aperte, un trucco nero molto pesante, capelli lunghi neri. Insomma, le dico “ciao” e lei neanche mi risponde perchè è di un timido assurdo. Si faceva fatica ad instaurare un rapporto, a imbastire un discorso, anche cazzate come “A che ora hai preso il pullman?”,“Alle 14”. Punto. Tristezza assoluta. Abbiamo preso una birra e abbiamo cominciamo a baciarci là, in mezzo a tutti. Le ho detto “Vabbè vuoi fare qualcosa?” e lei mi ha detto che dovevo scegliere io. Semplicemente, siamo andati a casa, da me, e lo abbiamo fatto.

Come si sono sviluppate le cose?
Lei già nei messaggi precedenti mi aveva fatto capire la sua passione: mi raccontava delle sue esperienze passate con altre persone e questa cosa mi eccitava. Sentirla raccontare di come veniva presa e maltrattata da altra gente mi ha fatto salire questo ‘pallino’. È nato anche per pura curiosità: volevo provare questa nuova cosa. Avendomelo già scritto per messaggio, io sono andato predisposto a fare quello (sottometterla, ndr).

sex-slaveCome ti sei preparato a un incontro in cui avresti dovuto sottometterla?
“Io sono andato molto tranquillo, nessuna preparazione. Il massimo è stato comprare una scatola di preservativi. Siamo arrivati a casa e mi ricordo che lei aveva portato qualcosa da mangiare. Abbiamo bevuto un’altra birra e quando l’atmosfera ha cominciato a scaldarsi siamo andati in camera. Lei ero molto affettuosa e, dato le premesse, anche lì ero molto sopreso. Una volta in camera ci siamo spogliati e abbiamo cominciato. Il rapporto l’ho gestito io, come avviene normalmente, ma il fatto è che potevo fare tutto, qualsiasi cosa mi andasse: avrei potuto prenderla a cinghiate sulla schiena, prenderla a morsi, spingerle la testa. E in tutto ciò lei stava zitta: solo qualche smorfia di dolore sul viso e basta. Nessuna reazione: è come avere un corpo che non ti dà emozioni, nulla, neanche uno sguardo di intesa negli occhi, nessun bacio durante il rapporto. È una cosa particolare: tu sei là, state scopando, devi fare questo punto. Lei fa tutto quello che tu vuoi. Mi ricordo che la prima volta è scappato un pugno sulla schiena e le ho lasciato dei lividi assurdi. Dalla prima volta abbiamo fatto di tutto, anche anal. Quella volta, una volta finito, l’ho riaccompagnata, e se n’è andata: non mi ha detto neanche “ciao”: mi ha guardato per un attimo e ha distolto lo sguardo. La sera mi  ha mandato dei messaggi “Mi fa male tutto. Sono piena di lividi, mi fanno male le ovaie”. Mi raccontò quali segni le avevo lasciato e alla fine ha detto “È bellissimo!”.

Ti è parso strano che lei provasse piacere attraverso il dolore?
Mi è parso strano, però allo stesso tempo mi piaceva. Perchè tu sai che quando le tiri uno schiaffo a lei piace, ma allo stesso tempo non lo dà a vedere. Quindi io mi chiedevo cosa potessi fare per capirlo, e ciò mi fomentava a picchiarla più forte perché lei non me lo dimostrava. Perché lei non reagisce mai, neanche quando uso tutta la mia forza. Comunque ci divertimmo talmente tanto che ci siamo rivisti una settimana dopo.

05a4f352a6a8afeaa3b0946605dc5ce8[1]Il tuo scopo qual è? Vuoi riuscire a provocarle reazioni o preferisci che rimanga impassibile?
I primi tempi sì: cercavo di essere baciato o di essere guardato negli occhi, quindi cercavo anche di darle fastidio per provocarla: sono arrivato anche a farle i dispetti più fastidiosi, tipo infilarle le dita nelle orecchie. Ma lei non reagiva: zero assoluto. Alla fine ho capito che non avrei ottenuto nulla e quindi ho picchiato sempre più forte, tanto ho capito che lei era fatta così e che non mi avrebbe mai detto “si, che bello, picchiami forte”.

Voi continuate questa tipologia di rapporto anche fuori dal letto?
Fuori dal letto nessuno è perfetto! (ride, ndr) Fuori dal letto lei è molto affettuosa e mi fa dei regali : io le invio delle mie foto, anche molto spinte, e lei mi fa dei ritratti che poi mi porta dal vivo. Mi compra mille cose da mangiare, portachiavi e oggetti metal. Io all’inizio non volevo che lei lo facesse perché è una ragazza giovane e non è certo in una situazione economica delle migliori, lei però diceva che io questi regali li meritavo perchè ero il suo padrone. Un giorno ho tentato di farle un regalo, perchè mi sentivo a disagio; allora le ho comprato un paio di collant, ma lei si è incazzata abbestia.

Scusami, è conveniente no? (ridiamo insieme ndr)
Sì è molto conveniente: mi portava anche dei barattoloni di burro d’arachidi, quello con i pezzetti dentro ma io non sono mai riuscito a trovarli. Le ho chiesto dove li comprasse ma non ha voluto dirmelo perchè secondo lei me li sarei comprati da solo e non l’avrei più chiamata. Discorsi assurdi.

Tu credi che questa sia una forma di amore?
Secondo me sì. Altrimenti non me lo spiego in nessun altro modo. A parer mio questa è anche una cosa un po’ infantile: ti presenti a casa con ‘ste robe…Io ho venticinque anni e mi è passata quella cosa che vado dal cinese, compro una borchia e te la regalo. Magari sì, è una forma d’amore… Al di fuori del letto ci sentiamo spesso e ci sono scambi di effusioni. Non so se la sto illudendo. Dici che la sto illudendo?

Da una parte vedo un lato molto istintuale in cui tu la picchi e lei si sottomette facendo cose che vanno davvero oltre: la riempi di segni e lei ne è contenta. Volevo capire se c’è un sentimento: se non da parte tua, almeno da parte sua?
C’è da dire che lei è alla ricerca di attenzioni: ha mille profili sui social network, che io addirittura ignoro, e sta sempre a scrivere, anche cose molto personali, e a commentare. Anche se del nostro rapporto sui social network non parla, nel senso che ci tiene all’anonimato della mia persona anche se lei dice tranquillamente di essere una slave. Lei parla del suo padrone in generale sui social network. Ricerca attenzioni anche da me: mi cerca via sms ma se io non le rispondo, anche per una settimana, lei non chiede che fine io abbia fatto e rimane là ad aspettare. Però quando siamo soli è alla ricerca di coccole. Da parte sua un sentimento c’è, ma sa già che non ci sarà da parte mia. Non ci sarà perchè lei non ha autostima, non mi piace, ma io ho messo le cose in chiaro sin da subito: si tratta di un gioco. Tu immagina che ci vediamo solo per scopare, non per fare un giro senza scopare. Per me questo rapporto finisce qui. Se lei mi invita a fare un giro con un’amica non ci vado perché non mi va di andare oltre.

Tu vorresti mai diventare slave?

Lei ultimamente ha letto dei fumetti e dei libri, uno credo che si intitoli “Hitoire D’o”, in cui la protagonista è una slave e il marito di questa le chiede di assoggettarsi con cose tipo “diventa un cane…” e lei si è rivista molto in questo personaggio. Poi a un certo punto la protagonista diventa master, allora mi ha chiesto se lei può essere switch (assumere sia il ruolo di master che di slave ndr) e mi ha proposto di sottomettermi ma per me non se ne parla proprio. Il rapporto tra me e lei rimane questo: la slave rimane lei. Io sarò sempre e solo il suo padrone. Ora non ci vediamo da due mesi e ci vederemo per fine Luglio: non so come andrà a finire, ma non penso proprio di farmi sottomettere. Io non mi faccio infilare cose nel culo, non mi faccio frustare, non mi faccio maltrattare.

bdsm slave master sesso

Tu le infili cose nel culo, la frusti e la maltratti?
Si.

Quali altre pratiche sessuali utilizzi per sottometterla?
Io volevo sperimentare e provare a legarla perchè lei sa fare anche i nodi. In genere, cinturate, perché mi diverte molto. Lo schiocco della cintura sulla pelle, il segno che viene fuori…una volta lo feci col vibratore. Poi si va su cose più classiche: schiaffo, un po’ di strangolamento, pugni sulla schiena, morsi finchè non esce il sangue. Poi, una volta mi ricordo che lei era a pancia in giù, gliel’ho messo nel culo, e gli ho messo un piede sulla testa e le spingevo la faccia sul cuscino. La vedevo soffrire tanto perchè spingevo forte, ma non diceva “A”, solo qualche flebile gemito. A un certo punto sento della puzza di merda e io ero senza preservativo: tolgo il pene ed ero pienissimo di merda, ma pienissimo! Allora stavo per venire, le piglio la testa, e glielo ficco in bocca, così ingoia tutto. Quando sono venuto lei si va a lavare, e poi abbiamo rincominciato tutto.

Ma dopo l’hai baciata?
Sì, ma tanto gliel’avevo anche leccata, quindi siamo pari.

Dopo questa immagine emozionante passiamo a un’altra domanda: avevi già instaurato un rapporto del genere con un’altra ragazza, o con lei è stata la prima volta?
Mi ero già visto con una per un paio di volte, ma era una cosa più tranquilla: lei si faceva sottomettere, ma non credo che avrebbe ricevuto il mio cazzo sporco di merda in bocca.

Pensi che in un futuro ricercherai, in un fidanzamento, situazioni del genere oppure è una componente non indispensabile?
Con le mie ex ragazze mi è sempre piaciuto un po’ dominare: alcune tentavano di farmi stare fermo ma era guerra perché a me piace dominare. Però dipende sempre della ragazza: se è l’amore della tua vita ma non vuole nemmeno una pacca sul culo magari fai un piccolo sacrificio, poi vedi se col tempo e un approccio meno violento le cose cambiano. Provo a vedere: parto con piccole cose, schiaffetti, una cinghiata un po’ più calma, e vedo che ne esce: se poi mi rendo conto che proprio non va… non so mi ci devo trovare… questa è una bella domanda. Se riesco proprio a farne a meno? qui mi devo rollare un’altra sigaretta, non lo so. Ti ripeto: se c’è, meglio! Ma non mi azzarderei mai a farlo direttamente, non è che mi vedo con una le prime volte  e allora gli infilo un cazzo in culo senza nemmeno un dito come faccio con lei (Lilith, ndr). Farne a meno non credo perché quel minimo secondo me ci vuole sempre per far capire chi comanda, perché si instaura un rapporto diverso anche al di fuori dell’ ambito sessuale.

Secondo te in una coppia c’è sempre uno che comanda e uno che si sottomette?
Secondo me sì, però spesso non si è coscienti.

tumblr_m4i56hwt1H1qzlro6o1_500Vi chiamate con soprannomi particolari?
Sui messaggi “Amore mio”, “Gioia mia” poi dal vivo lei non ha mai pronunciato il mio nome. Io dal vivo la chiamo col suo nome, non abbiamo nomignoli. A volte, se parlo di lei con altri, la chiamo Fuffy, come le cagne.

Bene. Vorresti dire ai nostri lettori quali sono le qualità per essere un bravo master?
Secondo me, deve esserci prima un rapporto mentale abbastanza forte, perché se non se ne parla prima, se non si instaura un rapporto prima con la testa che convinca l’altro a essere il tuo schiavo diventa solo violenza fine a se stessa.

A proposito di questa cosa sulla violenza: ma voi non avete stabilito un metodo, una parola, attraverso cui tu possa capire che lo schiavo è arrivato al limite e non ce la fa più?
No: perchè lei non parla, è sempre muta, quindi io potrei andare avanti a scopargli il culo all’infinito.

Ma non hai paura di farle male sul serio?
Sì c’è, e pure tanta, perchè a volte sono stato veramente cattivo. Però quando sei là sei preso da una cosa assurda. La cosa che io la sto picchiando, e lei non parla, mi fa salire proprio il Super Sayan. E quindi lo fai. La paura c’è. Specialmente quando mi dice “Ho le ovaie che mi fanno male” però lo fai. Quando sei lì tutto quello ti passa per la testa e lo fai.

Quindi è liberatorio, per te?
Anche. Mettiamola così: non è che sfogo le mie frustrazioni su di lei. Forse un pochino sì.

Bene: continuiamo con le qualità che deve avere un master e poi salutiamo i nostri lettori.
Ok, ripeto: molta presa mentale perché parte tutto da là. Lei deve essere tua, punto. Poi, quando lei viene a casa mia, se vuole delle coccole io l’assecondo, perché è anche un po’ uno scambio di cose: tu mi dai il culo io magari ti do un bacio prima. Si deve cercare di capire le esigenze che ha lei, prima di iniziare. Quindi accontentare un po’ le sue esigenze. A letto poi è individuale: calcola che comunque una slave non prenderà mai l’iniziativa, non ti salterà mai addosso. Una slave è una vera slave, ce l’ha dentro, è brava sin da dubito, non ci vuole tutta questa pratica prima. Non è una cosa che va studiata e pianificata.

Allora saluta i nostri lettori, così io vado ad intervistare la tua slave, perché voglio conoscere anche il suo punto di vista.
Saluto tutti i lettori di MdC e Let’s play master and servant, per citare i Depeche Mode, ecco. E poi, se capiti ancora in zona, mi scrivi che lucido le mie armi.

Scordatelo!


Lilith sembra stare sulle sue, pensa molto prima di rispondere e pesa tutto ciò che dice: come ha detto Lorenzo, sembra difficilissimo percepire un’emozione.

Ciao Lilith, ti ringrazio di avere accettato e ti chiedo di incominciare raccontandomi qualcosa di te: che fai nella vita? Che hobby hai?
Mh, allora… Nella vita cerco lavoro come tatuatrice, o comunque un lavoro a caso per poter mantenere per un po’ la mia famiglia e la mia migliore amica. I miei hobby sono soprattutto il disegno, la lettura e la scrittura; poi mi piace anche camminare per la città, ma con le prime tre attività passo più tempo.

Beh sembri una persona altruista! Pensi che questo tuo lato della personalità sia ricollegabile al fatto che sei una slave?
Forse sì. Non penso che sarei una slave se fossi egoista. Anzi, in realtà vado a periodi. Ci sono momenti in cui sono tutt’altro che altruista, e in quei momenti di solito desidero maggiormente sfogarmi su qualcuno in modo violento, mentre nei miei momenti normali desidero che qualcuno si sfoghi su di me. Per fortuna i momenti più aggressivi sono passeggeri.

Credi che l’aggressività sia una cosa sbagliata? Visto che hai detto “per fortuna”.
No, non realmente, ma mi pento di pensare io determinate cose, non mi sembra la mia vera essenza, in realtà non farei male nemmeno a una mosca.

Quando hai capito che questa era la tua vera essenza?
Quando mi sono accorta di stare male dopo aver fatto stare male qualcuno, sia in senso fisico che psicologico.

E come hai scoperto di essere una slave? Com’è avvenuta la tua prima volta?
In realtà é una storia abbastanza lunga. Ecco, sin da piccola avevo dei pensieri strani, che ancora non erano a sfondo sessuale, in cui le donne venivano trattate male. Con la scoperta del sesso e dei suoi lati positivi e negativi, tipo lo stupro, inizialmente ho avuto pensieri, per così dire, normali di persone che fanno sesso normalmente. Dopo un po’ questo non è più bastato a soddisfarmì, proprio a livello mentale. Quindi ho gradualmente cominciato ad avere fantasie in cui donne venivano stuprate e maltrattate ma ne gioivano, quindi ne traevo piacere anch’io. In quel periodo ho scoperto il BDSM e da allora mi ha affascinata. Non lo dicevo a nessuno per vergogna, non mi credevo normale… ero piccola. Poi un paio di anni fa ho conosciuto il mio primo master, e abbiamo presto parlato di tutto ciò. Mi ha invitata a “dare un’occhiatina” a questo mondo quindi pian piano mi ha fatto conoscere diverse pratiche e traevo sempre più piacere dall’essere sottomessa, ferita e in generale mettermi nelle mani di qualcuno.

tumblr_ndsdiltvkD1tigkcxo1_500Mi fai un esempio di pratiche?
Inizialmente ci siamo fermati per un sacco di tempo solo sul bondage. Mi piaceva essere legata, forse ero ancora un po’ troppo timida per andare oltre, lui se n’ era certamente accorto e ci andava piano. Dopodiché ha deciso di farmi male, frustarmi; cinghiate e schiaffi, a volte calci, il tutto “aumentando la dose” ogni volta di un po’. Dopodiché abbiamo svolto varie pratiche, tipo il tickling.

Tickling? Mi spieghi cos’è?
Sì, è la pratica del solletico. Lo schiavo o la schiava viene legato, dopodiché il master prende un oggetto, ad esempio una piuma, ed inizia a solleticare lo schiavo in diversi punti. In passato era un metodo di tortura.

Qual è la pratica che preferisci?
Preferisco di gran lunga essere frustata e pestata, al secondo posto cè il bondage, e dopo tutto il resto. Comunque preferisco quello che vuole farmi il mio master quindi non mi permetto di esprimere una preferenza.

Come trovi i master?
Di solito trovano me, non so nemmeno come in realtà. Appena qualcuno decide di troncare la relazione per un motivo o l’altro, di solito perché poi si fidanzano con qualcuna o per mancanza di tempo, qualcun altro decide di volermi conoscere e lì in poi può o non può evolversi qualcosa.

L’essere una slave non può far di te anche la loro fidanzata?
Non so. Certe volte, per alcuni, l’ ho sperato ma in realtà forse non sono una persona da amare in quel modo. Forse non sono abbastanza forte per legarmi a livello mentale o forse sono troppo debole per mostrare certi lati di me, chissà. Essere la slave di per sé non esclude essere anche la fidanzata.

Per te essere sottomessa e sottomettere sono comunque forme d’amore?
Mh, forse sì. In fondo è una grande dimostrazione di fiducia: do tutta me stessa nelle mani di una persona che, per così dire, potrebbe farmi di tutto ma mi affido completamente a lui e al suo giudizio. Per fare questo ci vuole una dose d’ amore, magari anche solo un amore amichevole, ma pur sempre una forma di amore.

Beh ma non credi sia un paradosso? Non è reale sottomissione se sei tu che decidi di farlo e a quanto ho capito dal tuo master lo hai scelto tu, sei andata a cercarlo…
No, non penso ci sia nulla di male ad instaurare prima un rapporto, fosse anche solo per conoscere le preferenze della persona che ho di fronte in modo da compiacerlo e soddisfarlo in modo più completo. Io non cerco né cerco di offrirmi in modo evidente a qualcuno; se qualcuno decide di prendermi come la sua schiava, in fondo, probabilmente è anche più rassicurante per lui sapere che ha di fronte qualcuno che gli piace non solo fisicamente, o almeno mi é sembrato così finora. Poi ognuno la pensa a modo suo ma per me sottomettermi a qualcuno non esclude a priori instaurare una relazione prima.

Hai mai scoperto i tuoi limiti nella dinamica master slave? Cioè, ci sono cose che non riesci proprio a fare?
Mh… non riesco a vomitare. E’ Più forte di me, non ci riesco in nessun caso.

Hai mai avuto brutte esperienze con un master?
Veramente, no. Anzi, ho sempre provato piacere in tutto quello che hanno fatto.

Ok Lilith, siamo all’ultima domanda: che consiglio dai a chi vuole intraprendere la tua strada e quindi diventare slave?
Un consiglio che darei a tutti sarebbe di non farsi condizionare da niente, deve nascere spontanea la volontà di provare determinate cose, non per mettere la crocettina alla lista di cose da fare. É qualcosa di innato e se c’è bisogna seguire il proprio intuito senza badare a quello che potrebbero pensare gli altri, in modo del tutto aperto senza farsi problemi.

Ti ringrazio lilith. Mangiatori di cervello ti fa i suoi migliori auguri per tutto. Mi raccomando: continua a seguirci!

Nota: le immagini presenti non rappresentano l’intervistato, l’intervistata nè alcuna persona a loro collegata.


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Società fast food

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Marc Augé, etnoatropologo francese, introduce il concetto di “non lieu” definendo due concetti complementari ma assolutamente distinti: da una parte quegli spazi costruiti per un fine ben specifico (solitamente di trasporto, transito, commercio, tempo libero e svago) e dall’altra il rapporto che viene a crearsi fra gli individui e quegli stessi spazi. In altre parole i non luoghi esistono solo per far sì che si usufruisca di un servizio: a prestazione terminata non sono più utili a nulla, sono semplicemente dei luoghi di transito. Ne è un esempio il supermercato: è uno di quei posti in cui si entra, ci si fa la spesa, e (soprattutto nei supermercati di nuova generazione) non ci si ferma ad intessere relazioni con il prossimo. Difficilmente si scambiano due chiacchiere con il tizio che ti affetta due etti di salame, o con la cassiera, perché il centro commerciale è un luogo anonimo e la signorina che batte i prodotti, sorridendo meccanicamente, non è la signora dell’alimentari sotto casa che ci ha visto crescere.

Lo stesso discorso vale per la stazione centrale: prendiamo in esempio quella immensa e bellissima di Milano, in stile neoclassico, costruita durante il fascismo e voluta dal Duce.

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Teoricamente la stazione centrale dovrebbe essere un non luogo perfetto, perché lì dovresti entrare solo per prendere il treno. Le leggende invece raccontano che di notte, in stazione centrale, succedeva qualunque cosa: e allora i marmi impolverati e luridi diventavano palcoscenico di bische clandestine e giri di prostituzione, o alloggio di fortuna per giovani minori in attesa di collocazione in una comunità.

Si racconta che qui, alla stazione centrale di Milano, di notte, si potesse trovare tutto ciò che si desiderava.

Ma questa magia piano piano sta svanendo e lo spazio pieno di anfratti in cui nascondersi per qualche ora, anche solo per pensare, per guardare i viaggiatori provenienti da tutto il mondo e il loro vagare prima di prendere un treno, si sta ammodernando.

Anche la stazione centrale si sta ora piegando completamente alla filosofia del non luogo, in cui tutto si consuma e poi si scappa.

Forse, i segni premonitori sono stati i cartelloni di D&G, con modelle nude e ammiccanti che ti mostrano il trend dell’estate. Immaginatevi in un posto che ha sempre puzzato in un modo indefinibile, ma che comunque sapevate esser “l’odore di stazione”. Immaginatevi quel posto sporchissimo, che se lecchi per terra e non muori all’istante, ti sei vaccinato a vita. Immaginatevi quel luogo altero, imponente ed immenso, che lo guardi e pensi: “Mastodontico ed istituzionale!”  con la pubblicità di donne i cui vestiti provocanti stonano completamente. E così le barriere architettoniche sono state abbattute e vicino alle scalinate immense sono spuntati ascensori. Le panchine su cui si accasciavano scomodamente i clochard sono state modificate: sono stati posti dei braccioli nel mezzo così da non potercisi sdraiare, neanche se sei in coma etilico.

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Oppure se sei un asperger, o semplicemente un amante dei treni, non puoi sederti a guardarli passare. Sono stati messi i tornelli, per cui, se non hai il biglietto, non puoi provare il brivido di farti un viaggio gratis.

Ci hanno rubato la stazione centrale, e tutti i ricordi sentimentalistico-adolescenziali legati ad essa.

Ma forse, finché è un luogo ad essere spersonalizzato, reso asettico, a perdere l’anima, non è un problema. Il vero problema nasce quando sono i corpi, il modo di vivere, a diventare un “prendi e consuma al volo che abbiamo troppo poco tempo e dobbiamo fare in fretta”.

Stando seduti in stazione, ci si può soffermare a guardare bene la gente. Tutte quelle ragazze ben confezionate e appetibili, ma terribilmente uguali. Tutte in serie. Non c’è un minimo di ricerca, in questo vestiario, alla pari di un asettico e spersonalizzato non luogo: quegli abiti vanno alla moda, le fashion blogger li consigliano, li trovi nei negozi in prima linea nella vetrina.

Ma è ben comprensibile: se devi abitare, vivere (o forse non-vivere), un luogo che non ha più una storia da scrivere e che ha solo la funzionalità di offrire un servizio, anche i corpi che lo abitano e lo attraversano devono comportarsi coerentemente con tale spazio.

182914_418299251601443_438945179_nTutto diventa veloce, e tutto si consuma. Non ci si sofferma più ad annusarsi di nascosto, a prendersi del tempo, non si rimane più impacciati con una lampo scomoda: il corpo è diventato parte di una catena di montaggio che corre veloce per perseguire uno scopo. Tutto è funzionale, nulla è lasciato al caso e alla fantasia.

Ma d’altronde: se i luoghi non ci permettono più di intessere relazioni e di affezionarci, di farli entrare nella trama della nostra storia personale, perché mai dovremmo concepire l’incontro con l’altro, con il suo corpo, come qualcosa in più rispetto ad un servizio?

I corpi come stazioni di passaggio: se viviamo i luoghi come “estranei”, allora un partner vale l’altro, non è importante inserirlo nella trama della nostra vita.

Un po’ come quando il fiammifero smette di bruciare, lo buttiamo via, e ne tiriamo fuori un altro.

Oggi, spogliarsi con calma, dopo essersi scelti, dopo un’accurata ricerca, viversi con il tempo personale, proprio dell’individuo, non è più contemplato perché, semplicemente, è inutile. Perché tutto è di passaggio, e tutto può, anzi, deve essere sostituito.


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Qual è la cosa giusta?

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A volte capita di essere con un amico e poter, semplicemente, essere sinceri. Sono quei classici momenti in cui si stacca dal mondo, si spegne il cervello, e tutta una serie di pensieri confusi riaffiorano: quotidiane banalità di cui si era  perso il filo, che si raccolgono all’occorrenza quando non si ha nulla di convenzionalmente serio cui pensare. Poi, però, dopo aver proferito parola, ci si rende conto che la quotidianità da spazio e priorità a cose che forse non son così importanti.

Allora questo tipo di chiacchierate le si possono ammettere in un parco, durante una domenica mattina, in compagnia di un amico fidato del momento, distesi con una birra sul prato, viziandosi con una sigaretta. Intorno ci sono coppiette giovani, ma anche più mature che si appartano e a volte, guardandone qualcuna, può capitare di pensare “che bella la gente quando non si odia. Chissà se riescono a non sentirsi soli per un solo secondo, quando si toccano. Chissà se riescono anche a bastarsi”.

Poi ci sono anche persone sposate con prole a carico e lì viene da pensare “guarda c’è gente che ha ancora il coraggio di riprodursi”. E infine la sequela di gente che viene a correre: dalla ragazza che fa pensare: “questa, sicuro se la stuprano, poi i benpensanti su facebook scriveranno che era un’oca che andava per i parchi mezza nuda e che ci teneva troppo all’aspetto fisico. Quindi sicuro se l’è meritato”. E poi vedi quelli che ne hanno bisogno davvero e si affannano più di te, e tutti sudati arrancano per cercare di migliorarsi. Perché essere di bella presenza, insomma, non fa mai male. Fa sentire meglio. Quindi ci si ostina a sciogliere i larderelli sotto al sole cocente, soffrendo come una gallina stitica, senza badare al fatto che, belli o brutti, la decomposizione ci spetta tutti. Anche quella più figa dovrà, prima o poi, riporre le sue bocce sode in una cassa di mogano.

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In questo meraviglioso setting, allora, si decide di fare discorsi filosofici sui massimi sistemi, ed esporre la propria visione della vita, tra un sorso e l’altro, tra una tirata alla sigaretta e l’altra. Interrompendosi solo per criticare l’abbigliamento di dubbio gusto dei tamarri con i risvoltini e le Hogan a forma di ferro da stiro, oppure per fermarsi a guardare il maniaco seriale che molesta sedicenni che appaiono infastidite da tali attenzioni, nonostante abbiano meno ingenuità di Sasha Grey in “Cum Buckets 8”. Il tema di oggi riguarda le etichette e il modo di concepire la normalità. Forse più che di etichette si parla di maschere che siamo obbligati a indossare tutti i giorni, per poter recitare una vita su un palcoscenico i cui registi non siamo noi. Il grande regista qua sono le pubblicità, la cultura dominante, e le infime ideologie sotterranee che agiscono più di ciò che è ovvio. Come dice il sociologo canadese Henry Goffman, siamo tutti lì a recitare un copione, indossando una maschera che è giusta per ogni eventuale situazione.

Si può quindi partire dalle insicurezze che affliggono sia gli uomini che le donne. Certe donne, o poco più che ragazze, in alcuni casi, le spogli più del dovuto. Nel senso che, dopo aver tolto loro il push up, hai letteralmente staccato i seni. Nel senso che, a volte, ci si chiede se alcune donne, durante la notte, vadano in decomposizione, oppure alcune dovrebbero essere pronte alla santificazione: perché, dimenticatesi di struccarsi, lasciano la sagoma della loro faccia in negativo sul cuscino. Un po’ come quando Gesù appare sui muri appena imbiancati o nei fondi di caffè.

Per gli uomini, invece, l’effetto uovo di Pasqua, nel senso che non sai cosa trovi sotto ai vestiti, non c’è. Loro di ansie sembra che ne abbiano altre. Loro hanno l’ansia da prestazione. Alcuni utilizzano il metodo tramandato di generazione in generazione dai maschi di famiglia: se lei si alza subito dopo l’atto sessuale, a prendere un bicchiere d’acqua, che lui le ha gentilmente chiesto, allora lei non è venuta. E alcuni hanno un vero e proprio copione: la copula deve avvenire esattamente secondo certe fasi in successione, imparate a memoria, collaudate negli anni, e  questo processo è delicato, di importanza vitale, da rispettare come un mantra, di una precisione tale che neanche madre natura con le fasi della mitosi è stata così pignola. E ci si rende conto che il fattore che sta alla base di questi crucci sia maschili che femminili, è il medesimo: la ricerca e il raggiungimento di uno standard che è “il modo giusto per”. Perché c’è un modo giusto per fare sesso, e il medico ha prescritto che gli uomini debbano essere sempre aitanti e prestanti. Mentre la femmina deve avere le bocce perfettamente sode e simmetriche, le ciglia lunghe e il pelo lucido. Insomma: le cose van fatte bene e bisogna studiare.mascheraaaaaww3

Ma non  esiste solo un modo giusto di accoppiarsi e di apparire: esiste anche un modo giusto per essere, perché la categorie sono ben definite. Quindi: o stai fuori o stai dentro. Le ricette del cucchiaio d’argento non ammettono sgarri e modifiche. Prendiamo ad esempio i gay: il manuale ufficiale della prestigiosa università del deretano oleato lo dice forte e chiaro che i gay sono quelli che si accoppiano con quegli altri dello stesso sesso. Le eccezioni però son da discriminare.

Perché esisterebbe una viscida categoria che si vergogna e che vuole tenere nascosto il proprio orientamento sessuale. I più criticati sono quelli che con alle spalle matrimonio e figli ad un certo punto mollano tutto e si mettono con qualcuno dello stesso sesso. Questa è semplicemente un’anomalia inaccettabile: la regola dice che è impossibile rendersi conto di essersi innamorati di una persona dello stesso sesso, senza mai aver avuto prima una pulsione sessuale e affettiva di questo tipo.

L’etichetta discrimina anche le persone “curiose”, perchè l’aver voglia di provare, a questo punto è un limite, o comunque la GIUSTA morale non lo permette. Perchè il giusto e lo sbagliato sono dei parametri sacrosanti. Che poi, sia chiaro: o gay o lesbiche, quelli a cui piace tutto son da rimandare alla prossima sessione per il recupero. Su quelli a cui piace ogni tanto “cambiare”, ma che mai e poi mai, intesserebbero una relazione omosessuale, non mi soffermo neanche: andranno all’inferno e basta, ci penserà Dio un giorno, insomma. Ma in fondo quelli che sono capaci di fare coming out senza problemi, gli impavidi che lo sbandierano, son da ammirare, perché schierarsi e autodefinirsi è importante. Forse è sbagliato pensare che vi è la prevalenza di un’ideologia per cui avere paura è un sacrilegio. Evidentemente abitiamo in un mondo accomodante per ciò che concerne diversità e minoranze. Chissà perché la gente perde ancora il posto di lavoro, o perché gli adolescenti si suicidano ancora per via del proprio orientamento sessuale. Non c’è alcun motivo di avere paura, oggi, a dire con sicurezza ciò che si è.

In fin dei conti questi son pensieri di poca rilevanza, fatti in una soleggiata domenica mattina, giusto per perdere tempo. E, giustamente, chi avrà visto te e il tuo amico, alle 11,30 di mattina con una bottiglia di birra in mano, avrà fatto bene a pensare che siete due alcolizzati, perché l’alcol non si beve di mattina, e la contestualizzazione è un optional. Quindi, per salvare le apparenze, si prendono bottiglia e mozziconi per gettarli nel cestino dei rifiuti: alcolizzati sì, ma sempre e comunque ecologisti. Ma quando ci si sente giù, e non abbastanza normali, si può accendere la tv, e guardare un qualunque sarnico2programma spazzatura e ascoltare la storia di qualche anormale che ha sventrato qualcuno, e per fortuna, i cronisti raccontano tutto con dovizia di dettagli. Così, quelli che indossano le giuste maschere, possono additare quello che è impazzito: osservando chi sta affogando, ci si sente meglio. 

Certamente è vero che si è obbligati a recitare una parte, e che le maschere servono, anche, a proteggerci; ma spero anche che Goffman avesse torto, e che non è vero che siamo senza anima. Che non è vero che recitiamo sempre una parte, anche quando siamo da soli. Io spero che qualcuno sia ancora capace di spogliarsi, di togliere la maschera, e di non guardare solo attraverso gli occhi di chi fotografa, ma capace anche di dire, fare, essere, ciò che è realmente. Certo: non lo si può fare sempre.

Certo, bisogna sapersi spogliare solo quando è opportuno e di fronte a chi può capirci. Ma bisogna farlo, prima o poi, perché altrimenti si esplode, e si fa la fine del serial killer che cercava la propria anima scarnificando vive le proprie vittime appese a testa in giù. Bisogna imparare ad essere se stessi con l’altro, bisogna imparare a spogliarsi e a rimanere a ventre scoperto, ed essere consci che in quel momento si è vulnerabili di fronte all’altro. Il lato negativo sarà, appunto, la possibilità di farsi male e il lato positivo, sarà quello, invece, di riuscire ad essere se stessi, semplicemente, senza alcuna recita, e magari essere accettati per la nostra vera essenza.


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I Cani, la sindrome di Asperger e i topi da laboratorio

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Se Marta fosse ciclotimica si appellerebbe alla biochimica perché d’inverno sembra Blondie e d’estate si veste come Anna Frank.
Se Sara fosse bipolare la troveremmo normale quando parla di magia bianca e poi dice di volersi ammazzare.
Se Carlo fosse veramente stato stuprato nell’infanzia avrebbe un ottimo motivo per mantenere la distanza dal padre che lo mantiene iscritto a lettere ad oltranza. Dal padre che lo mantiene iscritto a lettere ad oltranza.
Se Niccolò avesse l’asperger nessuno mai si aspetterebbe niente da lui almeno in termini emotivi e di capacità affettiva.
Le ex direbbero commosse: “Non era poi così male!”
Le ex direbbero commosse: “Non era poi così male!”
E invece purtroppo: non si scherza su queste cose
Non si scherza su queste cose!
E invece purtroppo: non si scherza su queste cose,
non si scherza su queste cose!

Questo il testo della canzone Asperger tratta dall’EP ICaniNonSonoIPinguiniNonSonoIcani che vede in collaborazione i Gazebo Penguins e I Cani, appunto.

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I Cani, ovvero il cantautore Niccolò Contessa, hanno diviso l’Italia in due: o li si ama o li si odia. C’è chi dice che i testi siano l’apoteosi dell’ovvietà, c’è chi dice che siano innovativi, geniali e illuminanti. Io li ho trovati orecchiabili e ho constatato il fatto che a volte, esprimere banalità non è così banale: a volte l’ovvio è talmente ovvio che sfugge. Esattamente come il testo di questa canzone: breve, ridondante, sarcastico, ma che nasconde grandi verità, se lo si legge in chiave pedagogica. Ad una prima lettura, infatti, gli indignati del web, direbbero che gli autori del testo hanno messo in ridicolo esperienze dolorose ed importanti come la ciclotimia, il disturbo bipolare, la sindrome di asperger o un evento orribile come lo stupro.

Ma in realtà, se leggiamo bene, questo testo, cerca, forse, di essere il manifesto di una società che sta cambiando e vuole dare rilievo ed importanza alla diversità e alla non esclusione: già, perchè a volte, sembra che per essere compresi ed essere ascoltati, bisogna avere una certificazione. Ma tutti quelli che non rientrano in uno standard di malessere, eppure provano un disagio, dove possono urlare il loro dolore?  Ed è proprio qui, il punto chiave della questione, la prima vera discriminazione. Ora, per star male devi essere etichettato. Se il tuo disagio non ha un nome e caratteristiche ben definite devi solo stare zitto e riflettere su chi sta peggio di te. Mi viene da pensare, che allora, siano da giustificare i gesti eclatanti e realmente dannosi. Però giustifico di meno quelli che poi, ad atto compiuto, dicevano “Non mi sarei mai immaginato”.

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Mi soffermo ancora un po’ sulla strofa che dice: «Se Niccolò avesse l’asperger nessuno mai si aspetterebbe niente da lui almeno in termini emotivi e di capacità affettiva. Le ex direbbero commosse: “Non era poi così male!”». E mi immagino un Niccolò Contessa che di vuoti emotivi e problemi sentimentali ne ha un sacco, e che evidentemente ci è “rimasto sotto” un bel po’ di volte, visto che, anche se in maniera caustica e lapidaria, sembra ricordare ex che lo mollano e storie andate a male, in diversi suoi testi.

Poi mi immagino letteralmente un’orda di tipe affrante che lo coccolano e compatiscono, anche se non è stato un bravo fidanzato, perchè, in fondo, cosa ci si può aspettare da uno che è malato?”, come se uno che è appunto, come dicevo sopra, certificato, è giustificato dal non potercela fare e dall’essere uno stronzo atarassico che in un rapporto è un egoista incapace di assolvere ai bisogni emotivi dell’altro. Tanto vale, perché puntare su un malato? La gente malata ci può semplicemente dare di meno e male, esattamente come descritto in qualche enciclopedia medica.

Da oggi per capire le persone e ipotizzare le loro possibili reazioni mi informo prima sulla loro patologia e poi vado a leggermi i sintomi: così capirò più velocemente e più facilmente le persone; quasi come i cani che si capiscono con una annusata di culo. Ma quanto le aspettative dettate da pregiudizi deteriorano i rapporti?

In merito a questo argomento mi viene in mente un esperimento che viene di solito presentato a professionisti che si ritroveranno, un giorno, a lavorare nell’ambito delle relazioni d’aiuto, come ad esempio educatori ed insegnanti, in particolare di sostegno. Questo esperimento è chiamato: Esperimento Pigmalione il cui nome si ispira proprio al mito di Ovidio, poi ripreso da George Bernard Shaw per scriverne una sua commedia. In questo esperimento si prendevano un tot di cavie bianche, comunemente utilizzate per esperimenti da laboratorio. Una parte di queste cavie era stata lobotomizzata, quindi, erano state ridotte le capacità di questi topolini. Queste cavie erano successivamente destinate ad essere consegnate a giovani studenti che avrebbero dovuto insegnargli ad eseguire un percorso. Il risultato?

Mouse in a maze --- Image by © Tetra Images/Corbis

Tutti gli studenti cui era stato, preventivamente, detto che i topolini erano lobotomizzati, non erano stati in grado di insegnargli ad eseguire il percorso, mentre gli studenti tenuti all’oscuro di tutto, erano, riusciti a far compiere almeno metà, se non tutto il percorso, anche se magari con più fatica, dovendo incitare il topo diversamente abile, o dovendo far fatica ed inventarsi escamotage per poter raggiungere l’obiettivo.

Quindi, proprio nel caso in cui gli studenti non erano stati investiti da pregiudizi, non avevano detto, certo, al topo “poveraccio: non ce la puoi fare, tu sei esonerato. Facciamoci una birra e andiamo avanti a pippe e videogames tutto il giorno che tanto sei giustificato”. No: quegli studenti, involontariamente, avevano ridato la dignità a quei topi che comunque erano riusciti ad assolvere al loro compito, anche se con più fatica e con strategie diverse da quelle tradizionali.

Tornando al testo della canzone, alla fine il nostro Niccolò lo ripete come un’omelia: “E invece purtroppo: non si scherza su queste cose!”Sui disabili non si scherza. Sui ciccioni non si scherza. Sui gay non si scherza. Orde di anti troll col forcone. Moralizzatori col diserbante in mano. Gente con l’intelletto di un comodino al buio che non comprende lo humor. Dobbiamo essere sensibili e sensibilizzare nei confronti di chi-è-meno-fortunato-di-noi. Ed anche qui la falla enorme che si è andata a creare: cerchiamo di non discriminare e allora non ci comportiamo normalmente, come faremmo in altri casi, e allora discriminiamo ancora di più. A volte si giunge, persino, a negare l’evidenza, e non ci rendiamo conto che con questi trattamenti speciali, stiamo rendendo la persona che ha difficoltà, ancora meno capace di quello che è.

DISAGIO

Perché, una persona con difficoltà, in realtà della percezione che il mondo ha di sé, non se ne fa veramente nulla, perché spesso è la percezione degli altri ad essere sbagliata, perché spesso precludiamo a queste persone, esperienze, solo per via di costrutti mentali assolutamente nostri che non corrispondono alla realtà. E poi credete davvero che infarcire la persona che ha bisogno di aiuto con discorsi del tipo “loro non capiscono, sii superiore”, condito da aneddoti pseudomotivazionali e buonisti, sia d’aiuto? Credete davvero che limitare e censurare lo scherno possa davvero migliorare lo stato delle cose?

Secondo me no, anzi: negando con la forza il diritto ad esprimersi degli altri, anche se sono idiozie, crea spesso un accanimento controproducente. Inoltre, creare un clima di accettazione basato su buoni propositi campati per aria, porterà un’atmosfera surreale in cui “ci si sta prendendo un po’ tutti per il culo perchè altrimenti fa brutto”. Ma chi sta male continua a stare male, e le risatine soffocate degli altri le percepisce.

E allora, perché non utilizzare l’ironia per rispondere all’ironia degli altri che a volte può far male? Perché non creare un principio di relazione con l’altro proprio partendo da uno scambio di battute che però ci pone sullo stesso livello? Perché tutti hanno qualcosa che è potenzialmente oggetto di scherno. Forse dopo averci scherzato su insieme, dopo un sano conflitto in cui si ammettono ed esorcizzano le proprie “mancanze” potrebbe nascere un nuovo contatto col mondo che potrebbe far pensare “allora non sono solo”. Che è ben diverso da “mi isolo perchè gli altri sono tutti cattivi, non mi capiscono, mi prendono in giro, ma io sono superiore”.

Perché non la smettiamo di prenderci troppo sul serio, e non ci scherziamo su, che tanto alla fine, chi più, chi meno, soffriamo tutti, siamo tutti sulla stessa barca, anche se non ce l’ha detto, esplicitamente il medico?

Anche questa banalità da non sottovalutare, banalità banale come i testi de I Cani, appunto.

Note: per chi volesse ascoltare il brano Asperger clicchi qua.


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Foodie: disturbi alimentari che si evolvono e giornalismo ignorante

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Questo l’articolo di risposta, giuntoci in redazione, da parte di una nostra lettrice che ha voluto dire la sua sui disturbi alimentari.

«Aveva dodici anni ed è morta sabato scorso. Buttandosi dal balcone di casa.» L’hanno chiamata “piccolo angelo”, “biondina”, “bimba anoressica”, “giovanissima suicida”. Ma era solo Maria Vittoria. Maria Vittoria.  Una vicenda agghiacciante, che ha portato alla rimonta i soliti stereotipi sui disturbi dell’alimentazione, fomentati dalla pigrizia intellettuale del giornalismo più becero. Perché non si può scrivere “sprofondata nel baratro” e (le ragazzine anoressiche, ndr) «in alcuni casi lo fanno per attirare l’attenzione, in altri per assomigliare a modelli sbagliati “imposti” dalla società». Eppure sono frasi comparse su testate nazionali, frasi che rappresentano il totale lassismo della parola, ridotta a un paio di jeans taglia 42 talmente usurati da entrare anche alla donna cannone. Il problema, ovviamente, non riguarda tanto e solo la forma, ma soprattutto il contenuto: strabordato dal suo spazio consono e inquinato dalla superficialità. Proprio per evitare i luoghi comuni vale la pena riflettere su alcuni aspetti dei disturbi alimentari che ancora nessuno ha portato alla luce. 2011_50101_89362

Punto uno. Nell’anoressia, così come nella bulimia o nel bed (per chi non lo sapesse, Big Eating Disorder, disturbo da alimentazione incontrollata, in cui la persona che ne è affetta introduce grandissime quantità di cibo senza compensare con vomito e digiuno, il che lo differenzia dalla bulimia) o nelle altre infinite sfaccettature dei dca (Disturbi del Comportamento Alimentare), il corpo è solo il punto di partenza, poi perde ogni importanza effettiva.

A molti sembrerà paradossale, ma è cosi. Senza dubbio si inizia a mangiare meno o a vomitare per perdere qualche chilo. Ma quella è, per così dire, la caramella con cui l’uomo nero attira il bambino nella trappola. Poi il fisico perde valore reale. Anche se diventa snello, magro, emaciato, scheletrico non conta più l’estetica. Contano i numeri sulla bilancia. Contano le ossessioni sul cibo.

Sapete qual è la differenza tra un numero sulla bilancia e un paio di gambe o una pancia? Che il numero è astratto, intangibile, intoccabile: non puoi tenere tra le mani la cifra sul display. Ma quei numeri scandiscono il perno della tua esistenza, condizionano le cose che fai, le persone che vedrai, i vestiti che indossi e naturalmente ogni singola briciola che entra nella tua bocca. La pancia e le gambe le osservi, le tocchi, ma poi non puoi passare la giornata intera davanti allo specchio o dedicandoti all’autopalpazione. Chi soffre di anoressia, per esempio, è perfettamente conscio della propria condizione fisica: sa che è sottopeso, ma questo non conta assolutamente nulla se la bilancia un giorno registra due etti in più. È una catastrofe, anche se per arrivare a una condizione di minima salvaguardia ce ne vorrebbero altri duecento di etti.

Provate a pensarci: se le persone con disturbi alimentari sono, almeno finché non diventano croniche per decenni, soggetti con un bagaglio culturale ed esperienziale del tutto nella norma (detta in maniera sintetica: senza deficit cognitivi), e arrivano a capire perfettamente di non essere belle e belli nel loro corpo malato, perché mai dovrebbero non voler raggiungere una condizione di maggiore benessere, bellezza e accettazione sociale? Perché? Non sono scemi. La risposta è che di mezzo c’è il cibo. Il cibo e tutte le ossessioni che ne sono collegate. Magari fossero solo le calorie. La lista continua con i nutrienti, i volumi, i colori, le forme, i luoghi in cui vengono cotti e consumati. Ogni malato di dca ha le sue gabbie personali e il problema è che, come tutte le ossessioni, anche quelle legate al cibo tendono ad alternarsi, dando magari l’illusione che una se ne sia andata, anche se in realtà è solo stata sostituita da un’altra.

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A questo proposito emerge il punto due. Non è vero che i media sono la causa di questi mali, ma è vero che un nuovo tipo di disturbo alimentare si sta sviluppando proprio grazie alle nuove tecnologie e ancora nessuno pare essersene accorto. Quella dei foodie, almeno per alcuni (tanti) non è solo una moda. È un’ossessione. Che spesso è figlia di anoressia e bulimia. Fate un salto su Instagram e guardate che cosa compare se mettete #edfamily #edrecovery (eatingdisorderfamily e eatingdisorderrecovery). Si apre un fitto sottobosco di immagini culinarie. Sembra di entrare nel girone dantesco dei golosi: tanto cibo, tantissimo cibo, solo virtuale.

È la schiera del ricovero social: persone che vogliono (forse) uscire dal loro problema con il cibo e lo fanno creandosene un altro. Cioè spostando tutta l’attenzione dalla restrizione alimentare alla sublimazione alimentare. La ricerca del cibo più buono, di quello più fotogenico, del ristorante o del prodotto esclusivo. Perché, va da sé, per una persona con dca mangiare non è mai scontato: deve valerne la pena. Altrimenti sono “calorie sprecate” Il problema è che cosa sta sotto tutto questo. Il vuoto. La necessità di riempire lo spazio creato da un’angoscia profonda. Lo stesso spazio che prima si colmava con i digiuni o/e con le abbuffate. Lo spazio della realizzazione personale e delle relazioni interpersonali.

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E veniamo al terzo punto. Che ne è di tutto il resto? Degli amici, del lavoro, dei fidanzati e dei genitori. Una domanda non scontata se si pensa che, quando la mente è invasa dalle ossessioni, tutto ruota attorno ai programmi relativi al cibo.

Esci per mangiare un gelato, non per vedere un amico (mangiando un gelato). Ti prepari pensando a che pizza prendere, non a come ti vedrà lui al primo appuntamento. Proponi un’uscita alle 18, non perché hai voglia di fare due chiacchiere con tua sorella, ma perché quel giorno hai programmato che farai l’aperitivo in un certo bar. E se qualcuno scombina i programmi, segui il gelato, la pizza, l’aperitivo, non l’amico, il partner, tua sorella. Il senso di abbruttimento, di totale asetticismo (lo stesso di un vasetto di yogurt o di un display che segna xx kg), porta sì a fare brutti pensieri.

A chiedersi che senso abbia. E allora davvero i luoghi comuni forse hanno un senso, lo hanno quando riprendono la loro radice originaria, il nodo da cui sono nati, prima di diventare preda di pour parler e lotta all’ultimo click. Come la leggenda metropolitana per cui per guarire da un disturbo alimentare ci vuole “solo” (?!) la forza di volontà. Ci vuole quella sì, è il punto di partenza, ma non è da intendersi come lo studente che deve impegnarsi a fare i compiti o il risparmiatore che si applica nella parsimonia. È proprio da prendere nel suo senso letterario: volere. Bisogna rendersi conto di quell’abbruttimento e non volerlo più. Volere la libertà. Poi la strada sarà tutta in salita: davanti a un piatto o a un’occasione conviviale si sarà come uno zoppo che deve pensarci tre volte prima di fare un passo e vede intorno a sé il resto del mondo, per cui camminare è un gesto scontato.

Note: vi intivitiamo a leggere i nostri precedeni articoli sull’argomento: Banchettare sui disturbi alimentari, e La malattia di Biancaneve


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Nasce il primo Hair Cafè in Italia: dove cibo, cultura, rispetto per la natura e cura del corpo convergono

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Nel cuore della Brianza (Carate Brianza) nasce il primo hair cafè italiano: un locale in cui oltre a ooccuparsi dei propri capelli (e non solo) ci si può anche incontrare tra amici e degustare pietanze sane e naturali che accontentano un po’ le esigenze di tutti. Per capire meglio ho fatto due chiacchiere con Pamela Galli che, insieme alla mamma Costanza e al fratello Gabriele, gestisce questa attività. Ho trovato molto interessante l’argomento, in quanto, oltre ad aver conosciuto un’innovazione che è appena entrata nel nostro Paese e ad aver capito qualcosa in più del mondo dei parrucchieri, ho conosciuto delle persone che hanno saputo cambiare, innovare, reinventare, un lavoro antico come quello del parrucchiere, per stare al passo con i tempi.

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Ciao Pamela: innanzitutto presentati, parlaci di te e del tuo percorso formativo.
Io sono Pamela e ho frequentato il liceo scientifico e tre anni di università senza essermi laureata. Nel frattempo ho aperto un negozio di parrucchiera con mia madre e, siccome lavoravo, ho lasciato gli studi per dedicarmi a questo mestiere: perché in quel periodo entravamo nel mondo della moda, dello spettacolo, delle sfilate, e quindi non riuscivo più a dedicarmi anche allo studio. Mi piace questo lavoro perchè faccio cose diverse tutti i giorni, non vedo mai la stessa persona, non dico mai le stesse cose: io sono una che non ama la metodica, quindi mi piace variare ogni cosa che faccio.

All’università studiavi qualcosa di attinente con ciò che fai adesso?
Allora… io ho sempre desiderato fare cosmetologia, quindi mi ero iscritta a chimica e tecnologie farmaceutiche per poi diventare una cosmetologa: infatti, nel mio lavoro, la cosa che amo di più, sono i colori, miscelare i colori.

Chi è che lavora con te? Mi hai detto della tua mamma…
Sì: lavoro con la mia mamma da quando ho ventun’anni, e lei lo fa da quando ne aveva undici: quindi lei è, diciamo, “l’ape regina” di tutto questo reame. E adesso abbiamo fatto società anche con Gabriele (il fratello minore ndr) e abbiamo creato questo concept store che esiste già in Australia (infatti la mia ispirazione arriva da lì) però esiste anche in Spagna e a New York (a New York tutti i parrucchieri hanno il bar). 

Da sinistra: Gabriele Galli, Miss Italia 2015 Alice Sabatini, Pamela Galli, Costanza Vergani all’inaugurazione del locale. Studio fotografico microluce Foto

Gabriele l’altra volta mi parlava del fatto che prima avevate un altro negozio, poi avete aperto anche questo e che solo ora, dopo anni, è diventato un hair cafè. Quindi ti sei saputa reinventare: volevo concentrarmi, anche su questo, perchè siamo in un periodo di crisi, quindi i giovani devono saper un po’ “inventare” il lavoro a volte. Tu come hai fatto, raccontaci il tuo percorso, come ti è venuto in mente?
Allora: io non so da dove mi arrivano le idee: me lo chiedono tutti, ma non lo so…Mi vengono e basta! Io ora ho una figlia di quattro anni: quando son rimasta incinta, ero in un momento in cui ero molto in dubbio su cosa fare della mia vita, nel senso che il mio lavoro mi aveva stancata e demotivata. Inoltre, avendo già fatto tantissimo fra televisione, sfilate, la moda e il pret a porter, non trovavo stimoli che fossero “più alti” rispetto a quello che stavo facendo; però cercavo di trovare dei cambiamenti in quello che facevo, e allora, essendo anche in un momento di crisi lavorativa, nel senso che, comunque, nel mondo del parrucchiere, le presenze sono molto diminuite: non esiste più la cliente settimanale, ma esiste più la mensile, la bimensile, la quadrimestrale…

Come mai?
Perché le persone hanno meno soldi in tasca, quindi, invece che andare tutte le settimane, a farsi la piega, ci vanno una volta al mese; e a farsi tingere la ricrescita, oppure a rifarsi tutto l’hair feet, ogni 3-4 mesi. Quindi vanno molto meno dal parrucchiere, perciò io cercavo una cosa che spaccasse un po’ questi schemi.
Perciò, prima di questo, mi sono inventata il negozio self-service: quindi ho aperto un piccolo negozietto vicino a questo, dove le persone possono farsi la piega da sole. Così ho abbattuto il costo della piega e ho velocizzato i tempi, creando un modo di fare questo mestiere più veloce. Ciò è accaduto due anni fa.

Nel frattempo, mentre cercavo su internet, il modo di reinventare la mia impresa, perchè ero stanca, ho trovato questa foto di un bar australiano, di un parrucchiere australiano, quindi questo grosso tavolone in legno, dove c’erano sedute queste ragazze con le cartine in testa e delle grosse brocche di Sangria sul tavolo. E da lì ho avuto l’ispirazione per fare questo concept store che è aperto da 15 giorni, ma già i numeri sono raddoppiati: quindi penso di aver cavalcato l’onda giusta.

Che differenza c’è tra ciò che hai creato e ciò a cui ti sei ispirata? Quanta “italianità” ritroviamo in questo progetto?
In realtà non lo so esattamente: perchè io mi sono ispirata a una foto! Quindi io non ho poi letto quale fosse la realtà perchè c’erano solo delle foto: ho cercato per mesi “parrucchiere-bar” …Quindi non so dirti…A me non piace, tanto, copiare…quindi ho preso l’ispirazione e poi mi piace “farmi il vestito su misura” , e sono partita da quello che volevo per me. Poi ho guardato anche il mercato cosa richiedesse, eccetera. Sono partita dal mio mondo interiore: volevo, innanzitutto, un ambiente che mi facesse vivere di nuovo delle emozioni e che facesse vivere delle esperienze alle persone che entravano qua dentro. Quindi non volevo il classico parrucchiere o il classico bar, ma volevo che, nonostante le attività fossero diverse, comunicassero, e uno dei nostri obiettibi centrali è portare avanti la bellezza ecosostenibile. Infatti abbiamo cercato tutti prodotti made in Italy, con all’interno fitoceutici coltivati in fattorie italiane che utilizzano lo slow-food e il kilometro zero.

Quindi abbiamo ricercato la naturalezza il più possibile, senza essere troppo di nicchia, altrimenti avremmo tagliato fuori tutta la parte commerciale dell’idea. Io volevo un ambiente dove stessi bene e dove potessi non patire più la fame: perchè tu sai che il parrucchiere fa tantissime ore di lavoro, a volte trattiene la pipì per dieci ore, mangia alle dieci di sera…Quindi, ti dicevo: voglio un posto in cui posso, anche, bermi un estratto alcalinizzante, dove posso mangiare e bere qualcosa…Voglio anche mettere dei libri: c’erano già nel negozio precedente, adesso non li abbiamo ancora inseriti….

Nitti

Libri di che tipo?
Quelli che ho letto al liceo: dalla letteratura (Wilde, Pirandello…) ai libri sul colore, perché io ho studiato tanto la colorimetria e come il colore influenza il cervello umano,  fumetti… Insomma: abbastanza varietà per abbracciare una fascia di persone il più grande possibile, e poi, il concetto che ho voluto portare avanti, che per me è fondamentale, è la condivisione. Quindi: io volevo, a tutti i costi, una pianta vera. Un Exfrantus Nitida che è un incrocio tra un Ficus e un Bonsai che io ho chiamato “Nitti” da Nitida (ride, ndr)  e la volevo fortemente, e soprattutto volevo che le persone condividessero il nostro mondo intorno a questo tavolo rotondo che ho fatto costruire appositamente, e quindi tutto nasce intorno a questo tavolo. Tutto l’ambiente è stato studiato perchè io volevo questo “fulcro” dove le persone si riunissero intorno.

Gli spazi li hai progettati da sola o ti sei fatta aiutare da qualcuno?
Con l’aiuto di un architetto a cui ho spiegato tutto ciò che volevo, e lui è riuscito ad esaudirmi. Prima il negozio era già nostro, poi abbiamo modificato, inserito la parte bar, fatto delle modifiche, e cercato di riutilizzare tutto quello che già avevo, anche per una questione di riciclo.

Il Logo di Natù Hair cafè, food lovers

Voi vi chiamate Natù: vuoi spiegarci il motivo?
Natù nasce praticamente dalla parola: Natura + tu, quindi il tuo io interiore, te stesso/a abbinato alla natura. Da qui nasce il marchio: il cerchiolino che c’è intorno al logo riprende il segno che lascia la tazzina del caffè sulla tovaglia quando si sporca e lascia la sbavatura (è stato studiato da un grafico). “Cafè Food Lovers”  perché ho unito l’inglese col francese: i caffè nacquero in Francia come luoghi di incontro nel periodo dell’Illuminismo, dove si riunivano i personaggi più colti ed illustri della società, e conversavano sorseggiando la bevanda calda. Food Lovers, perché noi, in famiglia, siamo amanti del cibo, e qui col bar, serviamo anche alimenti.

A quanto mi pare di aver capito, voi abbinate i trattamenti sul corpo con le tisane naturali, quindi diventa un trattamento completo per tutto il corpo. Spiegaci meglio, facci qualche esempio.
Sì, guarda: abbiamo fatto questo menù che io ho chiamato Bell’essenza, in cui ho scelto cinque trattamenti tisanoreici, abbinati  ai trattamenti per  il corpo. Ad esempio, c’è questo trattamento Energyzing, anti caduta, per capelli fragili: quindi l’ingrediente principale è il caffè, e poi ci sono: camomilla, zenzero e pepe-nero. Ed è uno stimolante del metabolismo semi cellulare, un antiossidante, un anti invecchiamento, e ciò abbinato a due proposte: una calda, e una fredda, che la persona può degustare mentre è in posa. Perciò questa è una piccola azione che mette in equilibrio l’interiorità con ciò che è il mondo esterno. O un altro esempio, è la tisana digestiva, abbinata ai trattamenti contro la forfora: solitamente chi ha problemi di forfora, soffre anche di disturbi della digestione e gastrointestinali.

12274487_963860653681129_8258725833587707630_nQuindi, riassumendo, questa è un’azienda a conduzione familiare: tua madre è una parrucchiera sin da quando era piccola e hai imparato da lei. Tu hai preso tutto ciò che hai imparato all’università, e tuo fratello che ha studiato all’alberghiero si occupa della zona bar. A proposito degli alimenti, vedo che sono esposti cibi senza glutine, o destinati a persone che seguono un’alimentazione vegana: cercate di accontentare ogni tipo di esigenza, a quanto pare. Cosa possiamo trovare?
Sì: ci tenevo a creare un ambiente dove tutti potessero mangiare, in modo che chiunque, sia per scelte etiche che per motivi di salute magari legati ad allergie, potesse trovare almeno una cosa da poter mangiare.Abbiamo di tutto: cibo senza derivati animali, cibo senza conservati (così come i prodotti per capelli non contengono solfiti o altre sostanze nocive), insomma: abbiamo cercato di essere naturali nel limite del possibile. Ci siamo appoggiati, per il cibo, solo ad aziende locali, quindi a kilometro zero: ad esempio il pane è fatto con un stampo particolare, progettato appositamente per noi, e realizzato con il lievito madre, oppure lievitato con l’aceto; oltre all’utilizzo di diversi tipi di farina, tra cui quella integrale.

Per il futuro ci saranno ulteriori sviluppi e nuove idee?
Sì, appena sarà possibile vorremmo ampliare il locale e inserire una libreria per bambini. Però con calma: adesso rilassiamoci un po’!pane

I libri saranno in vendita, o solo consultabili?
Io pensavo anche allo scambio: abbiamo già provato in passato, ma il problema è che spesso non tornano indietro, e io sono molto gelosa dei miei libri! Anche perchè, quando io leggo un libro, è come se diventasse un po’ una parte di me, e quando non mi torna indietro io mi arrabbio! Inoltre io tengo molto alla cultura, e nel mondo del parrucchiere (la cultura ndr) è quasi inesistente. Proprio per questo motivo io ci tengo molto che il mio staff sappia tenere conversazione (anche perché è un lavoro a contatto con il pubblico), che parli correttamente e si tenga aggiornato. Ci tengo che si esca dagli schemi e che il mondo del parrucchiere non sia più associato all’ignoranza. Un altro mio progetto, che realizzerò in futuro, è quello di fondare un’accademia, perché mi rendo conto che nel mondo del parrucchiere non esiste formazione: questi ragazzi aprono i negozi senza sapere nulla, facendo danni, e quindi rovinando la categoria; oppure portando avanti il lavoro nero lavorando in casa: perché anche se si fa fatica, si deve lavorare con passione, e soprattutto non pensare solo a se stessi, ma ai danni che si creano, in generale, non pagando le tasse. 

Colori in polvere, naturali al 100%

Cosa pensi, tralasciando la solita etichetta del “ci rubano il lavoro!”, dei parrucchieri cinesi che spuntano come funghi e sono ormai ovunque?
Innanzitutto c’è un’etichetta molto grossa: “il parrucchiere cinese utilizza prodotti di scarsa qualità”. In realtà ci sono anche parrucchieri italiani che lo fanno: la disonestà non conosce nazionalità. Questi sono gli stessi che comprano tubetti di colore a poco, abbassano i prezzi, e quindi rovinano la piazza: e sono italiani. Il cinese, in realtà, è un concorrente molto valido: sono veloci, ci sono sempre, anche la domenica, faticano tantissimo e a qualunque orario. L’ialiano, invece, si fa le sue sei ore, il week-end deve essere libero, se entra un cliente venti minuti prima della chiusura lo rimandano a casa: questa situazione ce la siamo tirata noi italiani, ricordando i tempi d’oro, gli anni ’90, in cui si stava bene. Sono errori che noi abbiamo fatto tutti i giorni e quando ci siamo trovati nella melma abbiamo incominciato a lamentarci. Sicuramente ci sono le responsabilità, anche da parte dei piani alti (politici ndr). Perciò, potrai trovare cinesi che hanno formazione e che utilizzano prodotti di qualità, come italiani incapaci e che fanno i furbetti. Io ho colleghi provenienti da tutte le parti d’Italia: ad esempio a Napoli la piega va a otto euro. Quindi, ci sono zone d’Italia con la piega a prezzi dei cinesi, quindi…Dobbiamo chiederci come mai le persone vadano a farsi i capelli dai cinesi. Io ho aperto un self, proprio per abbattere il lavoro nero e fare concorrenza ai cinesi abbattendo il costo della piega.

Io quello che non sopporto dei parrucchieri cinesi è che fanno tutto stando zitti tutto il tempo.
Non conoscono la lingua e gli manca il pezzo della consulenza: altrimenti non potrebbero avere i prezzi così bassi. Ora però “farò io la cinese” e scappo perché ho una cliente!

Mangiatori di cervello ti ringrazia per il tempo dedicatoci, ti fa i suoi migliori auguri per tutti i vostri progetti e ti augura buon lavoro!

Nota: Per scoprire di più sull’attività di Natù clicca qui.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           

 


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Ma dove lo dobbiamo mettere il crocifisso?

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Riccardo Massa

Per fortuna che mi occupo di pedagogia e non sono un’insegnante, anche se ho svolto la professione di insegnante, la svolgo tutt’ora, e per citare un Riccardo Massa a caso (psicologo cosentino che si occupò anche di pedagogia) “educare è istruire” (ed io aggiungerei che è anche istruire).

Dico “per fortuna”, perché così posso guardare le questioni educative nell’insieme e non fossilizzarmi unicamente su didattica e insegnamento.
Nella mia facoltà (scienze dell’educazione, altresì ribattezzata scienze delle merendine ndr) la questione dell’inclusione è sacrosanta, quindi, che che e ne dica, anche se ne ho incontrati molti, di educatori razzisti, malmostosi e troppo attaccati alle tradizioni, non ce ne dovrebbero essere (usiamo il condizionale che è d’obbligo).

Ma che cos’è l’inclusione?
Inclusione significa non lasciare da parte nessuno e far convivere dignitosamente tutte le parti.
L’inclusione, in qualunque ambito, avviene se il soggetto interessato lo vuole (io non posso obbligare nessuno a “far parte di”) e quello dell’inclusione è un discorso molto ampio e complesso, in realtà: infatti anche se ci sono i cosidétti outsider, che si pongono ai margini, se ci pensiamo bene, anche stare ai margini, significa comunque essere compresi in un sistema e averci un ruolo.

Fatta questa premessa, vorrei parlare del sistema scuola, che comunque interessa anche gli educatori, che potrebbero lavorarci, sia per insegnarci, per esempio, svolgendo corsi mirati su un qualche argomento, oppure seguire un singolo alunno che ha difficoltà (e così scopriamo che gli educatori non sono quelli che accompagnano gli handicappati in bagno ma pur volendo noi facciamo anche questo con dignità senza demoralizzarci e scomporci troppo).

Il sistema scuola ha la “fortuna” di poter “assorbire” i cambiamenti sociali gradualmente, e quindi ha il tempo di poter cambiare e per rispondere alle domande specifiche che di generazione in generazione cambiano, e perciò  mutano anche i bisogni educativi e formativi (e nonostante tutto la scuola non riesce quasi mai ad adeguarsi in tempi ragionevoli). Banalmente, fino a vent’anni fa, non era scontato fare inglese già dall’asilo, mentre al giorno d’oggi è d’obbligo, e ciò è accaduto, perchè, appunto, i tempi son cambiati.

04.09.2006 - Stabio: riapertura scuole. Nella foto un momento durante l'inizio delle lezioni presso la sede delle Scuole Elementari di Stabio con i giovani studenti e allievi impegnati. © Ti-Press/Benedetto Gallii

E siccome le cose son cambiate, son cambiati anche i bimbi che ti trovi in classe: mentre una volta gli stranieri erano i terroni e li riconoscevi perché al posto della mela, alla maestra, portavano la soppressata e le vocali erano aperte, oggi i terroni possono dichiararsi salvi dall’onta di essere nati al sud e possono sedersi ai primi banchi, perché i nuovi terroni sono gli stranieri.

Ma i terroni, anche se rubavano il lavoro ai polentoni, e anche se considerati buzzurri, avevano dei punti a loro favore che, purtroppo, gli stranieri non hanno: innanzitutto i terroni a mensa non avevano diete speciali perché del maiale non buttavano via niente, ma soprattutto, il crocifisso non gli creava scompensi. A pensarci bene, i terroni erano i più devoti e in cartella avevano la foto della Madonnina della grotta che li avrebbe accompagnati tutta la giornata, e nei temi lo raccontavano con dovizia di dettagli che:
“Zio Peppino aveva portato la statua di San Dionigi fino al santuario e il santo gli aveva fatto la grazia e Nonna Nunzia era guarita dai calcoli renali”.

I terroni di ieri, che hanno sopportato scherno e ingiustizia sui banchi di scuola  e che avevano problemi ad integrarsi, oggi hanno avuto la rivincita perché sono iscritti alla Lega, e per essere più raffinati hanno messo la soppressata nel risotto e, quindi, hanno integrato la cultura nordista con quella sudista alla perfezione.

E, dopo questa divagazione anni ’80-’90, torniamo alla questione inclusione: nella scuola, soprattutto ai primi gradi, quindi scuola dell’infanzia e primaria, è fondamentale che ogni alunno abbia le stesse possibilità di sviluppare le proprie potenzialità e di imparare, e nessuno deve essere lasciato indietro, e abbandonato a se stesso, soprattutto se i motivi sono culturali.
Un bambino ha il sacrosanto diritto di imparare anche se si chiama Abdul, ha la pelle scura e non è stato battezzato. Perciò, se oggi in Italia, per motivi politico-economici e per via di una rivoluzione culturale in atto, ci sono molti Abdul, la scuola deve essere in grado e preparata ad accogliere Carmelina, AntonGiulio, ma anche Abdul. La scuola italiana deve includere Abdul, perché un domani Abdul dovrà essere un adulto che vivrà in Italia e dovrà conoscere la cultura italiana (e un bimbo vessato ed emarginato non avrà molte possibilità di diventare un buon adulto ma creerebbe disagio).

Abdul se non è cristiano cattolico, può evitare di seguire la lezione di religione e fare altro, ma a pensarci bene, secondo la logica dell’inclusione, c’è qualcosa che non va. Perché la scuola, che ha il dovere di essere imparziale e non abbandonare nessuno, taglia fuori una fetta dei suoi alunni? Perché non si insegna la storia delle religioni, per creare quindi un momento di condivisione per tutti gli alunni che non escluda nessuno?1410964390-bimbistranieri

Ma andiamo avanti: ultimamente è impazzata la moda del presepe e del crocifisso in classe. Sembra un complotto dei costruttori di presepi  e crocifissi che vogliono incrementare il loro commercio. Spuntano su FB post nostalgici che inneggiano “Sì al crocifisso” e “ci stanno rubando la cultura”. Tutti devoti, cattolici e praticanti. Tutti gelosi della  propria cultura, che non conoscono. Perché, se la conoscessero, saprebbero, senza dubbio, che l’idolatria (statuette e oggetti sacri) non è ammessa dalla religione cattolica.
E che lo Stato è laico, e al massimo ci dovrebbe essere la foto del presidente della repubblica, nella scuola, faccio finta di non saperlo.

Perciò, riassumendo, la situazione è questa: la scuola ha il dovere di includere tutti i bambini, ma ci sono persone che trovano più importanti un crocifisso di plastica e quattro statuette, oggetti che ormai sono un futile adornamento, di cui ci si è ricordati dell’esistenza solo per un capriccio. E forse forse, ma non gridiamolo troppo forte, è un’azione politica che strumentalizza la questione per infondere odio, perché non si è in grado di gestire i cambiamenti che stanno avvenendo nel nostro Paese e, alla fin fine, con qualcuno, ce la dobbiamo prendere.

Forse l’immigrazione ha giustamente creato scompiglio, e si guarda ancor più cosa ci differenzia dall’altro, ma forse, la soluzione, non sarebbe l’esclusione, ma piuttosto, trovare un accordo, perché se così tante culture diverse si sono ritrovate nello stesso luogo, un motivo, ci sarà, e forse, per una volta, potremmo provare a mediare e ad imparare qualcosa l’uno dall’altro. Questo è un progetto molto difficile, ma inevitabile, visto che gli stranieri sono una realtà, e non possiamo far finta che non esistano.

So già che chi leggerà questo articolo mi accuserà di leggerezza e di non tenere abbastanza alla mia cultura, ma vorrei ricordare a queste persone che mi muoveranno tale accusa, che è da una vita che l’ora di religione viene spesso utilizzata per fare tutt’altro, perché non gli è mai stata data pari dignità, da molto prima che arrivassero gli stranieri. Anzi: gli stranieri, pur a migliaia di kilometri di distanza mantengono vivo il bisogno di coltivare il loro credo spirituale, sono sicuramente più bravi di noi da questo punto di vista, perché noi italiani, non siamo riusciti a coltivare qualcosa del genere pur “giocando in casa”. 

È una consuetudine potranno dire altri, peccato che in educazione non si agisce perché “si fa così da sempre”, ma perché c’è un motivo ben preciso: altrimenti esisterebbero ancora le bacchettate, ci si inginocchierebbe sui ceci, si indosserebbero le orecchie d’asino, sarebbe ammessa la pederastia, perché così si faceva nell’antica Grecia, perché così si è fatto per una vita. I tempi cambiano, i bisogni educativi anche.

Gli italiani vogliono ridare importanza ad oggetti come crocifisso, presepe, eccetera? Che incomincino a darci un significato che vada oltre a mero oggetto da arredamento, perché, quel crocifisso lasciato sopra alla lavagna, così  com’è, non ha nessun significato, e soprattutto non ha nulla di educativo, e questa è una mancanza grave: la scuola dovrebbe essere l’agenzia educativa per eccellenza.

L’unico compito a cui presepe e crocifisso stanno assolvendo, in questo momento, è quello di fomentare l’odio e il razzismo, perché sono diventati gli strumenti attraverso cui politici della più bassa lega si fanno notare.

Vorrei ribadire, inoltre, che la maggior parte delle nostre tradizioni sono frutto di incontro tra diverse culture, e che la cultura si arricchisce proprio con la diversità; la cultura non è certo statica, ma in continuo mutamento. Banalmente l’albero di Natale che si trova nelle case della maggior parte degli italiani è pagano e nasce dalla cultura anglosassone (andate a ripassarvi Enrico VIII e i suoi rapporti col Papa) e fu ideato dalla regina Vittoria per festeggiare il ritorno dalla guerra del marito.

Concludo, infine, ricordando che la purezza etnica non esiste, ma siamo tutti ibridi e imbastarditi, e che la Storia ci insegna che l’ultimo che non credeva in questa cosa, ha sterminato milioni di persone, rinchiudendole in campi di concentramento.

SALVINI


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#LoChefConsiglia: Beavis and Butt-head

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Cartone animato statunitense ideato da Mike Judge e trasmesso per la prima volta negli Stati Uniti d’America da MTV dall’8 aprile 1993 al 28 novembre 1997. Il 27 ottobre 2011 la trasmissione della serie è stata ripresa con nuovi episodi fino al 29 dicembre dello stesso anno. L’autore, per creare Beavis e Butt-head, si sarebbe […]

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